Punk capitalismo

E’ uscito anche in italiano, per Feltrinelli, il libro di Matt Mason, e finalmente potete leggervelo. Punk capitalism è il titolo scelto in Italia; in origine era The Pirate’s Dilemma e l’avevo recensito per il Manifesto. La recensione la trovate sul blog, e ora aggiungo anche l’intervista fatta all’autore e pubblicata su Repubblica.

Il tuo Pc scarica dischi e film 24 ore su 24? Peschi a piene mani dalle canzoni pop per remixarle in una base hip hop senza pagare un centesimo di diritti d’autore, e non ti senti per niente in colpa? Sei un pirata dell’era di Internet, non c’è dubbio. Non tutti però ti etichetteranno come criminale. Certo, in Italia rischi grosso, sempre se ti fai beccare. Ma non darti troppe arie: se pensavi di danneggiare il sistema di mercato, c’è chi ti farà ricredere. Matt Mason è l’autore di The Pirate’s Dilemma, il dilemma del pirata, un libro uscito da pochissimo in Inghilterra e Stati Uniti e incentrato sulla pirateria come mezzo per riprendersi la cultura ma anche per creare ricchezza e – orrore – capitale in un mondo in cui “i pirati là fuori sono dappertutto”, come dice Matt.

Il libro è ricco di esempi di pirateria virtuosa, anche dal punto di vista del business: nella musica, nell’arte, nella scienza, la pirateria è una vitamina del capitalismo, e non solo della cultura umana, che da sempre si nutre di remix e furti più o meno dichiarati. Come accade nella musica, dove “la pirateria può portare benefici se la gente capisce come funziona, e chi sta sul mercato usa l’innovazione creata dalla pirateria per trovare nuovi modelli di business”, per esempio per superare l’era del Cd, che in molti danno per spacciato a favore dell’mp3. In questo campo la pirateria non ucciderà l’industria musicale ma ci insegna che “le opportunità per fare soldi con la musica sono cambiate profondamente”.

Ma “la musica non è l’unico modo per ribellarsi, possiamo farlo anche nel mondo del business”. Matt parla addirittura di “Capitalismo punk”. Ma come si sposano l’attitudine punk e la voglia di fare soldi? “Il messaggio del punk come movimento giovanile e culturale è quello di riprendere il controllo su ciò che si fa e democratizzare il modo in cui funziona il mercato”, dice Matt, che ha cominciato la sua carriera come Dj nelle radio pirata londinesi. “Puoi mettere in moto cambiamenti positivi dando vita a un business: oggi è facile come mettere in piedi una band.” Mettiamoci nei panni di tre ragazzi ventenni negli anni settanta: “in Tv non c’è niente di buono, e formare una punk band è un buon modo per ribellarsi. Oggi gli stessi tre ragazzi possono inventare la loro tv e se sono abbastanza fortunati farsi comprare da Google”, come hanno fatto quelli di YouTube, un’altra impresa che permette a tutti di giocare ai pirati.

Ma questo Punk capitalism non è una contraddizione? I punk, quando si vendono all’industria discografica perdono la faccia e spesso anche la creatività. E poi dov’è il limite tra il pirata che frega il vicerè per ridistribuire il bottino e quello che lo fa solo per mettere insieme il suo tesoro? “Si possono fare entrambe le cose, fare i soldi e distribuire la ricchezza. Sempre più persone creano cambiamento in un contesto capitalistico. Tra il mondo no profit e for profit c’è molta permeabilità.” Per esempio ancora Google, una azienda presa di mira da chi la accusa di violare la nostra privacy e di essere un Grande Fratello che sa tutto quello che facciamo e usa i nostri dati per mandarci pubblicità.

Però, Google “investe nelle energie rinnovabili più soldi del governo americano”. Internet, poi, è il regno della gratuità, che ci insegna che non tutto deve avere per forza un prezzo: “abbiamo un sacco di cose gratuite che hanno un grosso valore, per esempio il free software, il codice informatico libero. La possibilità che tutti controllassero il suo sviluppo ha dato vita alle incredibili innovazioni che usiamo nella rete e ha creato business miliardari. Eppure la rete è basata su un bene pubblico, l’informazione libera, senza la quale non avremmo un bel po’ di aziende incredibili”.

Al di fuori della rete, Matt propone l’esempio dell’industria farmaceutica: “in paesi in via di sviluppo come Brasile, Thailandia o Cina ci sono aziende pirata delle pillole che fanno copie dei farmaci brevettati secondo le leggi occidentali”. E se combattere i pirati è difficile quando si parla di file musicali, figuriamoci se sono in gioco vite umane. “I governi di quei paesi ignorano le leggi occidentali sui brevetti, perché lasciar morire i propri cittadini nel nome del profitto altrui non è esattamante una buona mossa elettorale.” Piuttosto, le industrie dovrebbero aiutare i pirati e rilasciare i loro brevetti gratuitamente, perché “la reputazione che deriva da pratiche di responsabilità aziendale è molto più potente della pubblicità, anche nei confronti dei ricchi occidentali”.