Chi ha detto che l’open access è una mania da smanettoni libertari? Negli Usa il «Federal Research Public Access Act» lo hanno scritto il senatore repubblicano John Cornyn e Joseph Lieberman, il democratico più a destra che ci sia, recentemente sconfitto alle primarie nel Connecticut. In fondo la questione sollevata è semplice: perché i risultati delle ricerche degli enti pubblici, cioè quelle pagate da tutti i cittadini, non dovrebbero essere liberamente accessibili a tutti, ma solo a chi si abbona alle costose riviste scientifiche? I due senatori, insomma, vorrebbero obbligare i grandi enti di ricerca pubblici a mettere tutti gli articoli scientifici su archivi «open» dopo sei mesi dalla pubblicazione su rivista, rendendoli così consultabili gratuitamente a chiunque disponga di una connessione internet.
Niente di rivoluzionario, dato che i primi sei mesi sono il periodo di maggior interesse scientifico di una pubblicazione, e visto che nell’ultimo anno sia il Research Council britannico sia la Commissione Europea si sono espressi a favore della pubblicazione open access delle ricerche finanziate con denaro pubblico.
Del resto un’indagine internazionale ha rivelato che nel 2005 il 29% dei ricercatori aveva pubblicato in forma open, contro il 18% del 2004. E negli Stati Uniti i National Institutes of Health hanno già una politica simile, anche se su base volontaria.
Nel coro quasi unanime dei favorevoli alla proposta, tra cui tantissimi scienziati e naturalmente la Alliance for Tax-Payer Access (ma non gli editori delle riviste scientifiche a pagamento), pochi giorni fa è emersa una voce discordante: una decina di istituzioni di pubblicazione scientifica no-profit si sono dichiarate contrarie e hanno scritto una lettera aperta ai due senatori. Gli aderenti alla DC Principles Coalition ritengono che questo provvedimento possa «forzare alcuni giornali a passare a un modello di pubblicazione che richiede agli autori di pagare per le loro pubblicazioni attraverso i fondi federali, diminuendo i fondi utilizzabili per la ricerca». In effetti il punto è proprio questo: chi paga l’open access?
In gioco ci sono diverse variabili, non solo gli interessi economici degli editori. Per esempio, se internet permette di pubblicare una rivista on line a costi irrisori, restano comunque i costi della peer review, cioè del processo di verifica dell’attendibilità e dell’interesse scientifico di un articolo. È proprio su di esso che si fonda l’autorevolezza di una rivista. Quindi, se i lettori non pagano, devono essere gli autori a sobbarcarsi la spesa.
Le riviste open access già esistenti come Public Library of Science o BioMedCentral chiedono agli autori un contributo che copre le spese editoriali e di revisione: recentemente hanno aumentato i prezzi, che ora variano dai 1500 ai 2500 dollari per articolo, ma secondo dati pubblicati in giugno da Nature entrambi i gruppi editoriali hanno un bilancio in rosso. Da alcuni mesi però anche gli storici Proceedings of the National Academy of Science permettono agli autori di scegliere la forma di pubblicazione del loro paper, chiedendo 1000 dollari a chi opta per l’open access. Circa il 19% decide di pagare, e il risultato è che i loro lavori raddoppiano le probabilità di essere citati in bibliografia dai colleghi.
In effetti, anche se in un modello open access il costo della pubblicazione gravasse sui finanziamenti del progetto di ricerca, si tratterebbe mediamente dell’uno o del due per cento dei fondi totali. E comunque la pubblicazione open access su internet servirebbe anche per risparmiare le cifre elevatissime che le università spendono per gli abbonamenti alle riviste e anche quelli sono soldi tolti alla ricerca, che oggi soffre anche la scarsa circolazione dei dati scientifici. Con il sistema attuale, per esempio, molte piccole università non riescono a sostenere i costi degli abbonamenti, e stanno impoverendo rapidamente le loro biblioteche. Uno studio sulle biblioteche scientifiche commissionato nel marzo di quest’anno da Aplsp, un’associazione di editori, ha rivelato che il prezzo delle riviste è stato sino ad ora molto più importante della concorrenza degli archivi open access nella scelta di disdire un abbonamento, ma ha anche previsto che già nei prossimi cinque anni gli archivi potrebbero diventare la causa principale dell’abbandono delle riviste classiche.
Un interessante laboratorio per l’open access è, già oggi, la comunità dei fisici. Per loro i due modelli – riviste tradizionali e archivi open – convivono da tempo: quasi il 100% degli articoli viene pubblicato senza spese su arXiv – un archivio ad accesso libero che ogni fisico consulta quotidianamente – prima di essere sottoposto alla peer review e stampato sulle riviste di settore, che però continuano a garantire autorevolezza e riconoscimento accademico, e che almeno per ora non hanno subito ripercussioni negative.
di Alessandro Delfanti
Il Manifesto, 5 ottobre 2006