Notizia: Nature si occupa dei movimenti ecologisti radicali. Sul numero del 5 ottobre della blasonata rivista scientifica un editoriale e un lungo articolo parlano degli ultimi attacchi contro laboratori e strutture scientifiche e cercano di immaginare una possibile strategia per rispondere al fuoco.
«I radicali più radicali, gli aderenti a Earth e Animal Liberation Front, non saranno mai convinti. Ma c’è anche un gruppo più vasto di simpatizzanti che hanno particolarmente a cuore l’ambiente, che partecipano a manifestazioni qua e là, e che condividono le visioni più radicali della scienza. Questi ultimi potrebbero essere indotti più facilmente a cambiare le loro idee sulla scienza se gli scienziati smettessero di deridere i loro argomenti emotivi e dimostrassero che la scienza è una finestra attraverso cui possiamo vedere più chiaramente il nostro mondo».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del resto sono presenti forti movimenti ecoradicali, tra i quali spicca l’Earth Liberation Front. Lo scontro con Elf e Alf ha portato grossi problemi a diverse istituzioni scientifiche: incendi, danneggiamenti, liberazione di animali. Non esiste laboratorio dove si svolgono attività di sperimentazione animale che non abbia blindato l’accesso agli stabulari, e in alcuni laboratori si sono dovuti addirittura proteggere gli edifici con strutture anti-esplosivi.
Nature individua nelle espressioni più radicali dell’ecologismo la possibilità di essere «gonfiate e infiammate dalla visione che molti attivisti hanno degli scienziati: un’élite oppressiva che presenta le sue opinioni come fatti» e che può essere facilmente corrotta «dagli interessi dei ricchi e dei potenti».
Questi movimenti, che restano minoritari e usano dei metodi efficaci ma più facilmente condannabili, avrebbero però come retroterra un più ampio fronte ambientalista «razionale» che può essere convinto della bontà della scienza e dei suoi risultati.
Quindi Nature solleva il problema che gli scienziati dovranno affrontare di fronte al montare dell’opposizione ad alcuni tipi di ricerca: evitare di apparire paternalistici o supponenti rifiutando di interagire con visioni del mondo e della scienza opposte a quelle della stessa comunità scientifica. Benissimo, ma come? Con un’operazione di comunicazione migliore: spiegando meglio i risultati positivi della ricerca scientifica e le sue promesse per il futuro.
Presentando diligentemente e incessantemente la scienza per quello che è. Non un set di regole calate dall’alto da un elite ma un insieme di metodi per investigare i tanti, difficili problemi che l’umanità ha di fronte. Ma l’approccio paternalistico – e nel fondo, autoritario – rischierebbe di riaffiorare nel momento in cui ci si proponesse di risolvere questi problemi concentrandosi sui meccanismi e i risultati della scienza, ma senza accettare le critiche sul merito delle ricerche.
Negli ultimi anni diversi studi hanno ribattuto alla teoria, piuttosto stantìa, secondo la quale se gli scienziati spiegassero meglio la loro attività i problemi di accettazione della scienza sarebbero risolti. Per quel che riguarda le biotecnologie, per esempio, è stato dimostrato che la loro accettazione può sì dipendere dalla conoscenza dei loro meccanismi e dei loro risultati, ma in modo inversamente proporzionale.
La stessa Nature ha pubblicato nel 2002 «Biotech remains unloved by the more informed», un analisi dei sociologi Massimiano Bucchi e Federico Neresini che dimostra che in Europa (e in Italia) chi conosce meglio le biotecnologie è più diffidente di chi ha meno conoscenze scientifiche. In altri casi si è dimostrato che l’accettazione delle biotecnologie dipende strettamente dal campo applicativo: sì per la medicina, no per gli alimenti. Su tematiche sensibili quali la sperimentazione animale o gli organismi geneticamente modificati il dibattito resterebbe quindi principalmente politico e non solo scientifico.
di Alessandro Delfanti
Di questa storia ha scritto anche Tibi sul sito di Laser