Se Gesù oggi fosse vivo, lo uccideremmo con un’iniezione letale. Ecco quello che io chiamo progresso. Lo dovremmo uccidere per la stessa ragione per cui venne ucciso la prima volta. Le sue idee sono troppo avanzate, tutto qui.
Ecco una frase che riassume molte delle caratteristiche di Kurt Vonnegut, lo scrittore americano scomparso un anno e mezzo fa dopo averci lasciato una manciata di romanzi indimenticabili. Ironia, capacità di parlare dei mali e delle speranze del nostro tempo in modo semplice, che si tratti di alieni o di Gesù, di presidenti o di scrittori di fantascienza squattrinati.
È da poco in libreria, pubblicato da Feltrinelli, un libro postumo a firma Vonnegut, Ricordando l’apocalisse (e altri scritti inediti sulla guerra e sulla pace) (192 pagine, 16 euro). Si tratta di una raccolta di una dozzina di racconti e scritti incentrati sulla guerra, il tema che ha accompagnato gran parte della vita di Vonnegut, da quando si è ritrovato ad essere prigioniero di guerra americano di origini tedesche a Dresda.
E lì, per completare l’ironia del destino, ha subito il bombardamento della città da parte dei suoi compatrioti statunitensi, un atto criminale che ha raso al suolo una città intera portandosi via le vite di decine di migliaia di civili innocenti, anche se questo massacro non è conosciuto come l’uso delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. È quella l’apocalisse che Vonnegut ricorda, e che è diventata anche il romanzo che lo ha consacrato come uno degli scrittori americani più noti del dopoguerra, adottato dal pacifismo degli anni Sessanta come romanzo contro la guerra per eccellenza, Mattatoio n°5.
Il nuovo libro di racconti si apre proprio con una divertente lettera spedita dall’Europa ai suoi familiari poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel maggio del 1945, in cui racconta le sue traversie di soldato e di prigioniero in Germania. Perché Kurt Vonnegut aveva il dono dell’ironia e della leggerezza, che sapeva mescolare sapientemente all’amarezza, ai lutti della guerra, così come alle imprese dei trafalmadoriani, i suoi alieni preferiti che fanno capolino in diversi romanzi, a Marx o alla (fanta)scienza.
Una prova la fornisce il discorso scritto per la cerimonia di apertura dell’“anno di Kurt Vonnegut” a Indianapolis, la sua città natale. Indovinate chi era l’invitato principale per parlare davanti alla popolazione e al sindaco della città? Il problema è che Kurt aveva 84 anni, e morì giusto un paio di settimane prima della data fissata per il suo discorso. O meglio, “cadde, battè la testa e ruppe in modo irreversibile il suo prezioso uovo”, ci dice il figlio Mark, che è anche il curatore di questa raccolta, oltre a essere a sua volta scrittore, e che dovette leggere il discorso al posto suo. Nell’introduzione Mark Vonnegut racconta cosa pensò mentre leggeva il testo lasciato dal padre davanti agli abitanti di Indianapolis: “Come diavolo fa a farla franca con cagate come questa?”
La risposta stava tutta nel suo pubblico, innamorato a tal punto di Kurt da godersi un discorso infarcito di non-sense ma anche di frasi acute sulla politica Usa, sulla storia, sul presidente Bush, sul Ku Klux Klan… Temi che non sono poi troppo slegati a quelli degli altri racconti contenuti nel libro. Una macchina del tempo che riporta a una trincea nella Prima guerra mondiale, la storia di un prigioniero di guerra che fa di tutto per farsi amici i carcerieri nazisti, la caccia e la cattura (per modo di dire) del demonio che ammorba la vita dell’umanità.
I racconti sono inframmezzati dai divertenti disegni di Vonnegut, carri armati e buchi di culo, bombe e teschi pirata che fanno parte del suo immaginario. Quello dell’ultima pagina riassume molto dell’amore per l’umanità e dell’odio per il potere e la guerra che contraddistinguevano Kurt: Stavo cazzeggiando in giro per l’Indiana come tutti gli altri quando tutto d’un tratto qualcosa cominciò a sgorgare fuori da me. Era disgusto per la civiltà.
Queer, 19 ottobre 2008