Cibo, quanto ci costi?

Un articolo pubblicato da Liberazione in uno speciale natalizio sul cibo, insieme alla recensione di Mauro Capocci del nuovo libro di Peter Singer. Vegan Reich!

Vi lamentate del prezzo delle zucchine? Fare la spesa è diventato sempre più proibitivo?  Immaginate cosa potrebbero dire le persone che vivono nei paesi meno ricchi del nostro, che stanno subendo un aumento ormai globale dei prezzi del cibo. Il 2007 è stato l’annus horribilis in cui il grano ha raggiunto i 400 dollari alla tonnellata e l’indice dei prezzi del cibo dell’Economist ha raggiunto il valore massimo dalla sua nascita nel 1845.

Partiamo proprio dall’Economist, il settimanale del capitalismo globale, che nelle scorse settimane ha pubblicato uno speciale sul cibo (tradotto in Italia da Internazionale), incentrato sul prezzo delle derrate alimentri, che come è noto sta salendo a dismisura in tutto il mondo. Il titolo dell’Economist è sin troppo chiaro: La fine del cibo economico, un pronostico sulla fine del cibo a basso costo cui ci avevano abituato la rivoluzione verde e l’uso del petrolio in agricoltura, per far andare i trattori ma anche per produrre fertilizzanti e diserbanti. Questi fattori tecnici, insieme all’aumento dei terreni coltivati, ci hanno garantito per decenni una gran quantità di cibo a prezzi relativamente bassi, anche se non tutto il mondo sarebbe d’accordo con questa visione (si pensi ai cronici problemi di approviggionamento alimentare di alcune zone dell’Africa). Bene, forse quell’era è finita. E anche nella sua fine è implicato il petrolio, non quello a poco prezzo del dopoguerra ma quello a 100 dollari il barile della guerra in Iraq e dell’aumento della domanda globale.

Secondo lo speciale dell’Economist le cause principali dell’aumento dei prezzi sono due. La più importante è la produzione di carburanti derivati da vegetali, in particolare il grande aumento della superficie dedicata a mais destinato a diventare bioetanolo per alimentare i serbatoi dei mezzi da trasporto statunitensi. E il secondo è la crescita dei consumi di carne, che in paesi come India e Cina si sta avvicinando ai livelli del mondo ricco, così come cresce la loro domanda energetica per soddisfare i bisogni di elettricità e carburanti per i trasporti. Cominciamo con la carne: ormai è arcinoto che l’alimentazione vegetariana o ancora meglio vegana, insomma evitare di mangiare prodotti di origine animale, è uno dei modi migliori per abbassare il nostro impatto sull’ambiente. È un tipo di scelta che influisce sul clima, grazie alla minore emissione di gas serra, ma anche sull’uso di pesticidi e fertilizzanti di derivazione chimica.

Insomma, il fatto è che per produrre un chilo di carne di manzo sono necessari otto chili di cereali, e molti più spostamenti di merci qua e là per il globo. Ma tornando al problema del prezzo del cibo, abitudini alimentari particolarmente carnivore influiscono negativamente anche sul prezzo dei vegetali, dato che ne aumentano a dismisura la domanda da parte degli allevatori che devono nutrire un numero sempre maggiore di animali. Così, mentre in Europa e Usa il consumo di carne non diminuisce sensibilmente, Cina e India lo hanno raddoppiato in pochi anni: negli ultimi due decenni il cinese medio è passato da venti a cinquanta chili di carne all’anno.

Torniamo all’altro grande consumatore di cibo: il bioetanolo. Uno studio dell’International Food Policy Research Institute ha calcolato due scenari da qui al 2020: uno basato sui trend attuali e uno su un mondo che investe molto piu di ora sui biocarburanti. Nel primo caso, si prevede un aumento dei prezzi del mais del 26 per cento, nel secondo addirittura del 72 per cento. Con ripercussioni anche sulla sicurezza alimentare dei paesi più poveri, quelli in cui le persone spendono il 50-70 per cento del loro reddito per il cibo e solo l’1-10 per cento in energia. Prezzi più alti li obbligherebbero a spendere meno in cibo, con rischi conseguenti per la loro nutrizione.

David Dickson, direttore di SciDev (www.scidev.net), un network che si occupa del rapporto tra scienza e sviluppo, in un editoriale di pochi giorni fa ha chiesto che, prima di gettaris a capofitto nel business del biocarburante, i paesi in via di sviluppo ne calcolino bene vantaggi e rischi: dal punto di vista ambientale, riguardo al prezzo del cibo, ma anche dal punto di vista economico. L’Economist, infatti, nonostante il piglio piuttosto preoccupato del suo articolo, dichiara che l’aumento dei generi alimentari potrebbe essere d’aiuto all’economia mondiale: riduzione delle sovvenzioni all’agricoltura, maggiori entrate per i paesi produttori (che spesso sono quelli meno ricchi), maggiore equità negli scambi tra prodotti di base come riso, grano o soia e prodotti lavorati.

Tuttavia c’è chi non è d’accordo. Quando si parla della situazione alimentare di paesi come Bangladesh o Tailandia, occorre tenere in considerazione molte variabili. Un aumento delle entrate per i contadini dei paesi in via di sviluppo che producono biocarburanti riesce sempre a bilanciare l’aumento del prezzo dei generi alimentari di base? Il Brasile, per esempio, è riuscito a fare dell’etanolo un componente importante della sua economia, anche se a spese di un aumento della deforestazione. Ma lo ha fatto basandosi su ricerche e tecnologie sviluppate in casa e non importate a caro prezzo o, magari, soggette a brevetti e restrizioni da parte delle multinazionali agroalimentari. Come dice Dickson, “ciò ha messo quel paese in una posizione forte, che gli permette di negoziare a partire dalle sue esigenze” sul mercato internazionale. Più ricerca quindi, anche se non darà risposte immediate ai problemi energetici e alimentari del mondo, “produrrà le informazioni su cui basare le risposte alle sfide che dovremo affrontare”.

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