Questa è casa mia, comando io

Oggi su Nazione indiana c’è uno dei racconti pubblicati da Katie Hepworth sul suo blog dedicato alle storie dei migranti che Katie, artista e ricercatrice australiana, ha raccolto a Milano. Alcuni di questi racconti mi sono piaciuti molto e fotografano le condizioni delle persone che Maroni e soci odiano così tanto. Ve li consiglio. Sotto ne copincollo un pezzetto, il resto potete leggerlo qui, in attesa della manifestazione nazionale contro il razzismo di sabato 23 maggio.

"Mio marito era un dottore, io sono un’infermiera. Io ero una della classe media nel mio paese, della media-alta società. Venire qua per fare la badante è stato un colpo molto duro… Mi sveglio alle sei di mattina, in silenzio, cosi posso fare colazione in segreto. Mi faccio la doccia mentre lei dorme. Andiamo a letto alle dieci, undici di sera. Aspetto che si addormenti e vado a farmi la doccia. Ma a volte quando sente la doccia si sveglia. Una volta facevo la doccia e lei è entrata: “Che fai? Sprechi acqua”. Ero nuda, ma ha aperto la porta. Mi vergognavo, ma lei ha detto “questa è casa mia, comando io”.

Anche in camera mia lei prende tutto. Sai, avevo una piccola scatola di legno con delle cose dentro, cose per farsi le unghie, e lei l’ha presa e l’ha portata in camera sua… Non mi chiede mai il permesso. Adesso che sono qui, sicuramente lei è in camera mia a guardare. Ogni sabato e domenica, nelle due ore libere, va lì e guarda. All’inizio mi faceva una rabbia… mi sentivo imponente. Ma lei dice che è casa sua, che non mi posso permettere di chiudere la stanza. Sai che la porta del bagno non la posso chiudere? Rimane sempre aperta. È per la sua sicurezza, ma la porta rimane sempre un po’ aperta."

Luttazzi: quello che non sapete su Gaza

Come giustamente sottolinea Ricambi riciclati, è un comico a tradurre sul suo blog questo piccolo aiuto a comprendere cos’è la striscia di Gaza. Copincollo da danieleluttazzi.it:

Il NYTimes di oggi pubblica un articolo interessante di Rashid Khalidi, professore di studi arabi alla Columbia, autore di “Sowing Crisis: The Cold War and American Dominance in the Middle East”.

* * *

Quello che non sapete su Gaza

di Rashid Khalidi

Quasi tutto quello che siete stati portati a credere su Gaza è
sbagliato. Alcuni punti essenziali sembrano mancare dal discorso,
svoltosi per lo più sulla stampa, circa l’attacco di Israele alla
striscia di Gaza.

Il popolo di Gaza
La maggioranza di chi vive a Gaza non è lì per scelta. Un milione e
cinquecentomila persone stipate nelle 140 miglia quadrate della
striscia di Gaza fanno parte per lo più di famiglie provenienti dai
paesi e dai villaggi attorno a Gaza come Ashkelon e Beersheba. Vi
furono condotte a Gaza dall’esercito israeliano nel 1948.

L’occupazione
Gli abitanti di Gaza vivono sotto l’occupazione israeliana dall’epoca della Guerra dei sei giorni (1967).
Israele è tuttora considerata una forza di occupazione, anche se ha
tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla striscia nel 2005. Israele
controlla ancora l’accesso all’area, l’import e l’export, e i movimenti
di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo e
le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell’area a piacere. Come
forza di occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il
benessere della popolazione civile della striscia di Gaza (Quarta
Convenzione di Ginevra).

Il blocco
Il blocco della striscia da parte di Israele, con l’appoggio degli
Stati Uniti e dell’Unione Europea, si è fatto sempre più serrato da
quando Hamas ha vinto le elezioni per il Consiglio Legislativo
Palestinese nel gennaio 2006. Carburante, elettricità, importazioni,
esportazioni e movimento di persone in ingresso e in uscita dalla
striscia sono stati lentamente strozzati, causando problemi che
minacciano la sopravvivenza (igiene, assistenza medica,
approvvigionamento d’acqua e trasporti).

Il blocco ha costretto molti alla disoccupazione, alla povertà e
alla malnutrizione. Questo equivale alla punizione collettiva –col
tacito appoggio degli Stati Uniti- di una popolazione civile che
esercita i suoi diritti democratici.

Il cessate-il-fuoco
Togliere il blocco, insieme con la cessazione del lancio dei razzi, era
uno dei punti chiave del cessate-il-fuoco fra Israele e Hamas nel
giugno scorso. L’accordo portò a una riduzione dei razzi lanciati dalla
striscia: dalle centinaia di maggio e giugno a meno di venti nei
quattro mesi successivi (secondo stime del governo israeliano). Il
cessate-il-fuoco venne interrotto quando le forze israeliane lanciarono
un imponente attacco aereo e terrestre ai primi di novembre;
sei soldati di Hamas vennero uccisi.

Crimini di guerra
Colpire civili, sia da parte di Hamas che di Israele, è potenzialmente
un crimine di guerra. Ogni vita umana è preziosa. Ma i numeri parlano
da soli: circa 700 palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati
uccisi da quando è esploso il conflitto alla fine dello scorso anno.
Per contro, sono stati uccisi 12 israeliani, per la maggior parte
soldati. Il negoziato è un modo molto più efficace per affrontare razzi
e altre forme di violenza. Questo
sarebbe successo se Israele avesse rispettato i termini del
cessate-il-fuoco di giugno e tolto il suo blocco dalla striscia di Gaza.

Questa guerra contro la popolazione di Gaza non riguarda in realtà i razzi. Né riguarda il “ristabilire la deterrenza di Israele”, come la stampa israeliana vorrebbe farvi credere. Molto più rivelatrici le parole dette nel 2002 da Moshe Yaalon, allora capo delle Forze di Difesa israeliane:”Occorre far capire ai palestinesi nei recessi più profondi della loro coscienza che sono un popolo sconfitto.”

Qui l’articolo originale

Un altro target di Israele: i media

La Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) continua a protestare contro le condizioni inaccettabili cui sono sottoposti i media durante l’attacco a Gaza. Eravamo ormai abituati a giornalisti embedded e al bombardamento delle sedi radiotelevisive dalle guerre contro Ex-Jugoslavia, Afghanistan e Iraq. Ora si aggiunge il divieto, imposto con le armi dall’esercito israeliano, di raggiungere le zone di guerra, e quindi di raccontare al mondo in modo indipendente quello che succede in questi giorni di massacri e distruzioni. Secondo Robert Fisk, celebre inviato in Medio oriente dell’Independent, questa mossa potrebbe essere un boomerang per Israele, e un vantaggio per Hamas. Di certo non è un vantaggio per la popolazione palestinese, sottoposta a bombardamenti criminali che non vengono documentati dai media.

E non è un vantaggio per la libertà di stampa: secondo Aidan White, segretario generale della IFJ "ogni giorno che passa assistiamo a continue e ciniche violazioni della libertà di stampa e dei diritti dei giornalisti che cercano, in condizioni difficili, di informare su quello che succede a Gaza. Secondo le nostre informazioni i media all’interno di Gaza sono obiettivi dei soldati israeliani, mentre si impedisce l’accesso dei media esterni" dato che Israele ha attaccato più volte mezzi con la scritta Stampa o TV, oltre ad aver distrutto gli uffici di Al Aqsa Television (mentre scrivo, ovviamente, il sito non funziona). Il Sindacato palestinese dei giornalisti  parla anche dell’arresto da parte di Israele di un reporte di Al-Alam TV che lavorava a Gaza, e Reporter senza frontiere documenta l’arresto di due giornalisti a Gerusalemme.

Mentre la IFJ parla di "cinismo", "oltraggio" e "intimidazione", l’Associazione della stampa estera di Gerusalemme cerca di trattare con le forze israeliane perché smettano di opporsi alla decisione della corte suprema, che ammette l’ingresso di 8 (otto) giornalisti a Gaza. Anche questo inaccettabile, secondo IFJ: "è necessario rifiutare che l’accesso sia controllato, organizzato e supervisionato dalle autorità israeliane". Aidan White insiste nell’affermare che "non è possibile che una sola delle parti decida chi ha diritto a entrare e in che circostanze. I giornalisti devono poter viaggiare e lavorare in libertà e senza il controllo da parte dei militari".

Dirty War Index: monitorare la guerra sporca

Ridurre la guerra e le sue vittime a numeri è sempre un’operazione pericolosa. Ci provano, su una rivista seria come PLoS Medicine, due ricercatori britannici che propongono di monitorare i risultati delle guerre usando il DWI, Dirty War Index. Per calcolarlo, bisogna scegliere un tipo di vittima "illegale" del conflitto, poniamo i civili uccisi, e calcolarne la percentuale sul totale dei morti. Più si avvicina a 100, più indica un conflitto che viene combattuto con mezzi criminali.

Non so, però, se davvero utilizzare un indice come questo – simile ad altri come l’Indice di sviluppo umano o quello che misura la corruzione – potrebbe "mettere in dubbio la reputazione, la legittimazione, le risorse future o lo stesso potere" dei leader politici e militari che conducono una guerra, come dicono Hicks e Spagat, gli autori del DWI. Certo, essi "non vogliono solo vincere. Vogliono anche avere un’autorità morale superiore". In questo momento a Gaza i calcoli sui bambini palestinesi uccisi o sugli edifici civili colpiti darebbero un Dirty War Index infamante per Olmert, Livni e l’esercito israeliano. 

Ma la politica non è matematica. I leader criminali di Israele sventolando lo spettro di Hamas riescono a giustificare il bombardamento indiscriminato di aree urbane densamente abitate, di moschee, addirittura di edifici ONU e strutture sanitarie di organizzazioni straniere. Intanto il loro consenso elettorale cresce, e le speranze per un futuro accettabile per il popolo palestinese sono carbonizzate sotto le bombe.

 

Raid Gaza! Il videogame

Rilancio da Molleindustria la segnalazione di questo nuovo instant game: RAID GAZA!

Raid Gaza!
è un gioco semplice e diretto perchè, a volte, per interpretare gli
eventi non servono particolari sofisticherie e relativismi. Ora più che
mai appare chiaro che Israele non ha alcun interesse a perseguire una
soluzione pacifica al conflitto Israelo-Palestinese. In fondo chi mai
accetterebbe compromessi con una potenza militare senza paragoni, il
supporto incondizionato degli USA ed un’economia che marcia su tecnologie militari e sicurezza?

Questo semplice non-dilemma è alla base del gioco online. Raid Gaza!
rappresenta alla perfezione l’asimmetria del conflitto in corso,
solletica le pulsioni militariste del giocatore e lo spinge ad
interrogarsi sulle sue azioni. E’ davvero così divertente sparare a dei
pesci in fondo un barile? 

BBQ or Proposition Two?

Proprio mentre esplode la BBQ season, la stagione del barbecue, una vera ossessione che crea ogni pomeriggio d’estate una cappa di fumo sui quartieri residenziali, gli Stati Uniti si trovano a discutere della crudeltà degli allevamenti intensivi. Pochi giorni fa la California ha deciso di sottoporre a referendum popolare la Proposition 2, una proposta di legge avanzata da associazioni animaliste e intitolata The Prevention of Farm Animal Cruelty Act (Legge sulla prevenzione della crudeltà sugli animali da allevamento). Quindi il 4 novembre i Californiani voteranno in massa per Obama, e questo è certo, e forse anche per una proposta che sta sollevando un dibattito serrato sin da ora.

La Proposition 2 metterà fuori legge le gabbie che non concedono abbastanza spazio agli animali per muoversi, sedersi, girarsi e allungare gli arti: una richiesta tutto sommato modesta, se ci pensate. Ovviamente gli allevatori rispondono che questa misura potrebbe espellere dalla California alcune attività produttive, per esempio gli allevamenti di galline ovaiole, per impossibilità di competere con chi adotterà i metodi di sempre: il 95 per cento delle uova americane (e mondiali) viene prodotto in batteria. La stessa cosa accadrebbe per le gabbie da gestazione usate nell’allevamento dei maiali, particolarmente strette e scomode, per usare un eufemismo, dato che non permettono alla scorfa praticamente alcun movimento.

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Seattle a piedi: non si va lontano

Mettiamo che abbiate un bel po’ di muscoli e di fiato, e di tempo libero. Potete farvi Seattle a piedi, su e giù per le sue colline e per i suoi quartieri. Questa settimana si è parlato molto di pedoni. Un po’ perché l’inquinamento atmosferico va sempre peggio anche a Emerald City, un po’ perché il governo locale sta cercando di lanciare qualche campagna anti-automobile.

La più discussa è quella che prevede le Car-free sunday, la domeniche senz’auto appena annunciate dal sindaco Nickel. Direte: da noi ci sono spesso e ormai pochi protestano. Ma quelle di Seattle, nonostante siano solo simboliche, stanno facendo incazzare parecchio commercianti e anche cittadini. Eppure sono una farsa: per tre domeniche, a turno, una via sarà chiusa alla traffico da mezzogiorno alle sei. Sì, avete capito bene, in tutto sono poche ore e pochi metri di ztl temporanea. Ditelo a quelli che già da ora stanno protestando: la domenica dobbiamo aprire i negozi, la gente deve andare in chiesa, perché non chiudete una via di Bellevue (i quartieri alti)? Se lo scopo era solo educativo, per ora sembra non funzioni nemmeno quello.

Intanto però il Dipartimento dei trasporti sta conducendo un’inchiesta per conoscere le abitudini pedonali dei Seattleites, i cui risultati verranno usati per scrivere il Pedestrian Master Plan, un piano cittadino per migliorare l’accessibilità delle strade ai pedoni. Se volete partecipare dite la vostra. Io alla domanda "perché cammini" ho risposto "for fun", mentre la maggioranza dei partecipanti sinora ha messo la crocetta su "per andare a fare la spesa". Alla faccia dei commercianti della 14ma avenue.

PS: sul sito del Seattle Post-Intelligencer, un quotidiano locale, qualcuno per commentare le Car-free sunday ha usato la parodia di una famosa canzone dei Dead Kennedys:

Seattle Uber Alles
Seattle Uber Alles
Uber Alles Seattle
Uber Alles Seattle

Zen fascists will control you
100% natural
You will jog for the master race
And always wear the happy face

Close your eyes, can’t happen here
Big Bro’ on white horse is near
The hippies won’t come back you say
Mellow out or you will pay
Mellow out or you will pay!

Obama è il nuovo sex symbol

"In politica come nella pop music, legioni di ragazzine che si strappano le mutande non possono sbagliare". Comincia così l’editoriale del nuovo numero di The Nation, settimanale progressista Usa che racconta la reazione di una folla di giovani donne durante un’apparizione pubblica di Obama. Se poi anche sul mercatino di Fremont si cominciano a vendere mutande autoprodotte con la serigrafia di Barack Obama, dev’essere proprio vero che come scrive JoAnn Wypijewski, se "politicamente non sembra sostanzialmente diverso da qualunque altro neoliberale, come sex symbol è il new man", e ormai "anche i ragazzi stanno diventando ObamaGirls".

Secondo Wypijewski il candidato democratico incarna tutta la voglia dell’America di tornare a essere swimming, di essere sedotta e sentirsi di nuovo sexy dopo gli anni del bushismo. Anche il rapporto con sua moglie è stato qualificato come "hot" da diversi giornali popolari, per esempio da Ebony che ha scritto che quando Michelle sale sul palco con Barack, "you see love on stage". Guardatevi qualche video su YouTube.

A Seattle, una delle capitali liberal d’America, l’obamamania è sin troppo visibile: la percentuale di giardini con un cartello pro-Obama è impressionante, come il numero di persone che fanno campagna per strada. Qui a Fremont sono comparsi addirittura stencil con un tremendo Obama/Che Guevara. E siamo solo all’inizio, mancano ancora tre mesi alle elezioni. Per soffiare un po’ sul fuoco The Stranger, il settimanale alternativo della città, ha chiesto ai lettori di mandare racconti erotici a tema che vengono pubblicati nella nuova rubrica, Obamarotica (“Y-yes,” urlai, “Yes…we…can…” mentre entrava dentro di me…). Un must, e non cercate di immaginare la stessa cosa con Walter Veltroni.

In conclusione, l’editoriale tutt’altro che assecondante di The nation ricorda che "è ancora possibile che gli elettori decidano di legare l’identità nazionale al cadaverico e asessuato John McCain e alla sua moglie zombificata ed ex-tossica". Intanto però, Seattle e tutta l’America democratica si godono un’ondata di obamamania senza precedenti, altro che JFK.

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