Il lavoro al tempo della rete, intervista a Ned Rossiter

Dalle reti virtuali di Internet alle reti sociali e di lavoratori che vivono nel mondo della precarietà. Ned Rossiter è un ricercatore indipendente che vive a Pechino e che si occupa dei nessi tra cultura di rete, lavoro creativo e precarietà. Il suo libro Organized Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions verrà pubblicato da Manifestolibri nel corso del 2008.

Gli abbiamo chiesto di commentare la EuroMayday 2008 prendendo spunto da quello che succede online, nello sfruttamento economico della cooperazione di milioni di utenti da parte delle aziende del web 2.0, e nella società, dove il precariato è alla ricerca di nuove forme di organizzazione e di risposte alla complessità del capitalismo odierno.

Come ricostruire le organizzazioni dei lavoratori e rispondere ai loro bisogni nella società in rete?
Le organizzazioni politiche si trovano di fronte a diverse sfide. Primo, c’è bisogno di criticare la visione del lavoro come un’entità coerente e ben distinta. Sappiamo bene che nei fatti il lavoro è contraddittorio e contiene registri multipli e differenti che non è facile connettere (genere, classe, etnia, età, modalità di lavoro…). Come organizzare gli inorganizzabili? Secondo, dobbiamo interrogarci sul confine tra lavoro e vita, un confine che la biopolitica contemporanea ha reso indistinto, mettendo al lavoro e rendendo produttivo ogni aspetto della vita. Non possiamo più separare il pubblico dal privato, e ciò ha un’enorme importanza sul modo in cui immaginiamo le organizzazioni politiche di oggi. Paolo Virno parla di una “sfera pubblica non-statuale”. Ma dov’è questa sfera? In rete, e in nessun luogo. Ci sono fantastiche organizzazioni politiche che restano soltanto al livello del virtuale, che è il territorio delle “information war” di oggi. Però il problema della materialità persiste, e diventa urgente come ci dimostra la crisi ecologica.

Come far parlare questi due mondi?
Personalmente preferisco un approccio che tenga insieme la dimensione virtuale dell’organizzazione e la condizione materiale. Può prendere la forma di un evento o un meeting, workshop, ricerche sul campo, esperimenti urbani, centri di supporto ai migranti, laboratori dei media… ci sono molte possibilità. E in questi tentativi abbiamo cominciato a veder nascere nuove forme di istituzione. Sono istituzioni in rete, molto lontane della cultura statica e dai regimi normativi delle istituzioni dell’era moderna – sindacati, imprese, università e stato. La loro natura mobile ed effimera è sia una forza, sia una debolezza. L’invenzione di nuove forme istituzionali è centrale nella ricostruzione di organizzazioni del lavoro contemporanee. Ma esse non devono essere viste come un peso che smorza la spontaneità, la libertà e la cultura di condivisione e partecipazione che caratterizzano i network sociali. Queste nuove istituzioni devono facilitare le connessioni che rendono possibili nuovi territori del politico.

In rete l’appropriazione da parte delle imprese sta raggiungendo ogni istante delle nostre vite, per esempio nel web 2.0. Cooperazione e coproduzione sono una ricchezza della società o delle aziende?
Questa è una delle tensioni principali dell’economia della partecipazione del web 2.0. I sindacati industriali proteggevano i lavoratori dallo sfruttamento e rappresentavano il loro diritto a condizioni migliori di lavoro. Ma cosa succede nel momento in cui le attività di svago diventano una forma di generazione di profitto per le imprese? Social network popolari come Facebook, MySpace, Bebo, Del.icio.us e i dati che lasciamo a Google sono miniere d’oro per i proprietari di questi siti, grazie agli spazi pubblicitari e alla vendita di dati aggregati. I sindacati non possono più fare appello all’oppressione dei lavoratori quando gli utenti cedono informazioni volontariamente e non chiedono di partecipare ai profitti. Però stiamo cominciando a vedere dei cambiamenti, dato che gli utenti diventano più consapevoli e possono abbandonare un social network altrettanto velocemente di quanto vi siano sciamati dentro. Le imprese sono vulnerabili alle masse in rete il cui lavoro cooperativo ne determina la ricchezza. Questa cooperazione è una forma di potere che può essere mobilitata in forma politica, in forme di soggettività preferibili alla ributtante cultura della “democrazia degli azionisti” che è diventata una delle espressioni politiche del cittadino neoliberale.

La Mayday di quest’anno è fatta dai migranti oltre che dai precari dei call center, delle cooperative sociali, dello spettacolo… Come tenere insieme queste differenze?
Non c’è alternativa alla lotta e alla tensione che accompagna le relazioni di cooperazione. In concreto, le relazioni passano per il lavoro o l’incontro con gli altri. Condividere, produrre, creare, ascoltare. Far parlare lingue ed esperienze diverse significa creare lo spazio per nuove istituzioni.
Se la precarietà è una condizione comune, che attraversa classi e scale geoculturali, possiamo chiederci: in quale situazione la precarietà esprime se stessa? Nelle reti virtuali, materiali, affettive e sociali, in cui ci connettiamo con gli altri. La EuroMayday è precisamente una di queste situazioni. Ogni anno la Mayday articola un’accumulazione di saperi distribuiti e condivisi, e diventa più potente. Mi chiedo se la sua forza non sia nella spettacolarità dell’evento ma piuttosto nella risonanza dell’esperienza sulle piccole connessioni e pratiche che hanno luogo prima e dopo l’evento. Quello è il tempo e lo spazio della nascita di un’istituzione. Il resto è una dichiarazione pubblica di esistenza.

Il Manifesto, 1 maggio 2008

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