Molti anni fa (era il 1984) Richard Stallman se ne andò dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) per dare vita a uno dei più noti e riusciti esperimenti di intelligenza collettiva al lavoro: Gnu, la piattaforma di software libero che oggi è la base del sistema operativo Linux e che è costantemente migliorata da una comunità di migliaia di programmatori disseminati in tutto il mondo. Stallman non voleva che la libera evoluzione del suo software, prodotto collettivamente dagli hacker, fosse ostacolata dal copyright.
Chissà se al Mit di Boston stavano pensando a lui quando hanno trasformato il Center for Coordination Science nel nuovissimo Center for Collective Intelligence, che si propone di capire «come le persone e i computer possono essere connessi in modo da agire – collettivamente – in modo più intelligente di quanto qualunque individuo, gruppo o computer abbia mai fatto prima». È una decisa evoluzione dell’approccio della scienza alle nuove tecnologie informatiche e alle reti sociali, che stanno dimostrando il loro valore produttivo con risultati anche economici di tutto rispetto.
Per dimostrare che l’affare è serio basta elencare le strutture coinvolte: il Dipartimento di management, il Dipartimento di computer science e intelligenza artificiale, il Dipartimento di scienze cognitive, il nuovo McGovern Institute for Brain Research e infine il celebre Medialab, già culla di diversi progetti per alimentare l’intelligenza collettiva in rete.
Il Center for Collective Intelligence studierà e applicherà le interazioni in rete tra individui, che creano conoscenza con l’aiuto di strumenti tecnologici come database aperti, wiki, forum on line. Cercherà insomma di «guardare oltre l’orizzonte per vedere quello che sarà comune tra cinque, dieci o vent’anni. Google, Wikipedia, Linux ed e-Bay sono esempi che mostrano che qualcosa di interessante e importante sta già succedendo. Questi esempi non sono la fine della storia, ma solo l’inizio». Tutti casi di successo che hanno saputo «sfruttare la capacità di grandi numeri di persone – connesse attraverso internet e altre tecnologie – per risolvere meglio problemi economici, scientifici e sociali».
Si parte per esempio con Collaboratorium, un forum on line sul cambiamento climatico che userà «una combinazione innovativa di interazioni mediate da internet, archivi di idee generate collettivamente, simulazioni e rappresentazioni che aiuteranno gruppi di ricercatori grandi, eterogenei e dispersi geograficamente a esplorare sistematicamente i problemi e risolverli. Gli utenti potranno condividere le loro idee e analizzare le diverse opzioni usando gli strumenti di simulazione, e poi prendere decisioni collettive».
Un altro progetto del nuovo centro si chiama «We are Smarter than Me» ed è in collaborazione con la Wharton Business School. Letteralmente significa «Noi siamo più intelligenti di Me»: un libro scritto collettivamente in rete tramite un wiki, cioè un testo on line che ogni utente registrato può modificare liberamente. Sono già trecento i partecipanti che lavorano alla sua stesura, direttamente sulle pagine on line che nel 2007 diventeranno un libro di vera carta, dedicato ad applicare la teoria dell’intelligenza collettiva all’economia aziendale. Allo stesso modo verrà scritto il «Manuale dell’intelligenza collettiva», con un processo di scrittura che sarà esso stesso un esempio di intelligenza collettiva al lavoro.
In fondo non sono grandi innovazioni: il modello Wikipedia è già stato applicato con successo ai libri da diversi gruppi. In Italia, per esempio, sono stati scritti collettivamente in forma wiki i libri del Gruppo Laser e quelli di Ippolita: l’ultimo della «comunità di scriventi» Ippolita, The dark side of Google, uscirà a breve per Feltrinelli. Secondo lo stesso direttore del Center for Collective Intelligence Thomas Malone (professore di management e autore di The future of work) «nei prossimi anni molte persone faranno un sacco di ‘esperimenti naturali’ con l’intelligenza collettiva – con o senza di noi».
La novità sta quindi nel tentativo del Mit di applicare questo modello alla scienza, coagulando forze intellettuali e risorse economiche invidiabili attorno a un progetto che avrà il difficile compito di sviluppare teorie che possano «aiutare a comprendere le nuove forme di organizzazione che prima non sarebbero state possibili ma che domani potrebbero diventare molto più efficienti, flessibili e innovative delle forme di organizzazione tradizionali».
Per i ricercatori, strettamente legati alla paternità del loro lavoro certificata dalla firma sotto un articolo scientifico, potrebbe trattarsi di un’importante cambiamento: a chi attribuire il merito di una ricerca sviluppata in forma aperta da centinaia di persone sparse per il mondo e per la rete? Il cambio di nome serve anche a coinvolgerli: Malone conferma che «intelligenza collettiva è una forma molto più eccitante di inquadrare quello che vogliamo fare. Questo nuovo nome enfatizza le eccitanti possibilità che abbiamo davanti, e ha catturato l’entusiasmo di molte persone del Mit con le quali non avevamo mai lavorato prima».
di Alessandro Delfanti
Ps: una versione leggermente diversa di questo articolo è uscita sul Manifesto del 26 ottobre