Su Liberazione di oggi una mia intervista a Ippolita, «Comunità di scriventi» che ha da poco pubblicato il suo secondo libro: Luci e ombre di Google. Sotto l’intervista e qui il libro scaricabile gratuitamente.
«Don’t be evil», non essere cattivo. È il motto di Google, paradiso dell’accesso alla conoscenza, dell’innovazione e della gratuità. Ma Google ha anche un’altra faccia, più nascosta ma non meno importante, il suo lato oscuro: il principale strumento con cui navighiamo sul web e cerchiamo informazioni è un grande fratello tecnologico?
Se lo chiede Ippolita, nome collettivo di un gruppo di ricercatori e attivisti che si dedicano ad analizzare con uno sguardo critico la rete e le tecnologie dell’informazione. Con un’attenzione particolare agli aspetti tecnici – alcuni di loro sono informatici – ma senza mai separarli dai loro rapporti con le pratiche sociali che animano internet. Anche per questo il loro ultimo libro, Luci e ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei metadati (Feltrinelli, 176 pagine, 9,50 euro) è scaricabile gratuitamente dal sito di Ippolita ed è rilasciato sotto licenza Creative Commons: chiunque può usarlo, modificarlo, pubblicarlo se non ne fa uso commerciale.
Perché criticare Google, nel momento in cui tutti ne osannano il modello economico e i risultati tecnologici? Solo per le sue dimensioni o ci sono differenze con gli altri motori di ricerca? Le dimensioni di Google sono superiori a quelle degli altri motori di ricerca, innanzitutto per la quantità di pagine web che analizza e mette a disposizione degli utenti. Inoltre raggiunge una quantità di utenti impressionante e la sua diffusione è ormai pervasiva: è insomma un buon esempio di questa tecnologia così familiare che sono i motori di ricerca. Ma la scelta di Google è, in fondo, strumentale: la nostra riflessione ruota soprattutto intorno all’informazione e al ruolo crescente che essa sta assumendo nelle nostre società. La forme in cui questa informazione viene gestita, trattata, distribuita e consumata affondano le proprie radici nelle economie di mercato, nei grandi capitali e nell’orientamento sfrenato al business. Per questo ci siamo interrogati su quello che può nascere a partire da queste premesse. L’informazione è nostra e le tecnologie possono rivelarsi eccellenti e rivoluzionarie così come distruttive, a seconda dell’uso che se ne fa.
Però i motori di ricerca allargano l’accesso a informazioni e cultura. Non sono i motori di ricerca ad allargare l’accesso all’informazione, quanto l’abbattimento del digital divide e la possibilità di accesso alla rete. Sicuramente i motori la veicolano e la facilitano, anche se le pagine che riportano non sono la totalità delle pagine esistenti. Ci siamo chiesti se davvero Google trovi quello che cerchiamo. Google offre la possibilità di trovare nelle prime pagine dei risultati ciò che l’utente medio cerca. Il risultato è impressionante, ma ci induce a credere che quello che cerchiamo sia esattamente quello che Google offre. Non è sempre così, e stiamo perdendo l’abitudine a verificare la validità delle informazioni, poiché non le confrontiamo con nessun’altra fonte.
Ma Google resta solo un mediatore tra individuo e web. È un mediatore: noi crediamo appunto che il web sia costituito dall’informazione prodotta da tutti, e oggi stiamo assistendo ad un arricchimento dei patrimoni informativi, a nuove forme di conoscenza. L’informazione che maneggiamo si sta trasformando. Ma così come si sono trasformati i contenuti, forse il prossimo passo sarà la trasformazione degli strumenti.
Il 2006 è stato l’anno di YouTube, MySpace, dei blog e del social software. Il web e i motori di ricerca non sono strumenti positivi, che danno a tutti diritto di parola e socializzano la produzione di conoscenza? L’utilizzo delle piattaforme di scambio della conoscenza (nei vari formati: link, storie, filmati, commenti, condivisione) è incredibile. La rete sta davvero prendendo una forma sempre più plurale. Il nostro diritto di parola è aumentato però solo fino a che qualcuno non ritiene che certi contenuti siano scomodi: un meccanismo uguale a tutte le limitazioni alla libertà di espressione che ci sono nel mondo reale. E nel web l’accesso all’informazione non è diretto ma mediato da strumenti tecnologici, che appartengono a pochi e sono le leve economiche di grandi corporazioni. Crediamo che nel complesso l’effetto sulle società sia positivo. Ma questo potere di controllo non può non essere preso in considerazione.
Ricerca, video, pubblicità… Google sta diventando un monopolio dell’informazione? Sicuramente sta accentrando i contenuti, e le sue continue acquisizioni di società e partnership commerciali lo stanno rendendo un monopolio della gestione di informazione. Non dimentichiamo che la rete viene usata come spazio di immagazzinamento e conservazione delle informazioni, oltre che di accesso. Ma gli usi che Google fa delle informazioni che gestisce non sono sempre espliciti e chiari. Sappiamo bene che Google utilizza i dati come materia prima per lo sviluppo tecnologico e il business aziendale. Non concederemmo ad una persona, a un gruppo, a un terzo, di leggere la nostra agenda personale e sbirciare nei nostri blok notes (soprattutto se lo facesse per rivenderne i contenuti e ricavarci dei soldi!). Ma a Google lo permettiamo: i dati del calendario, ciò che scriviamo nelle mail, cerchiamo in rete o pubblichiamo su YouTube vengono usati per scopi commerciali: mandarci pubblicità, per esempio. La medaglia ha due facce: da una parte aumenta gli strumenti di comunicazione disponibili, dall’altra rende sempre più facile usare i nostri dati per costruire identità digitali che ci rappresentano ma che non possiamo controllare.
Google afferma che la sua missione è «organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e fruibili». Una dichiarazione ambiziosa, ma il tentativo di approssimarsi a questo risultato c’è. Si, c’è eccome, e cresce quotidianamente. È proprio la dimensione spropositata di questo processo che ci ha causato il vago senso di ansia che ci ha spinto a capire da cosa derivi questa dimensione e cosa effettivamente si celi dietro di essa. La rete non è centralizzata e gli accessi dovrebbero essere multipli, non convergere verso un’unica porta.
C’è una via d’uscita che non precluda l’uso delle nuove tecnologie? Non siamo tecnofobici, anzi quello che cerchiamo di chiarire nel libro è che la tecnologia è un diritto e che dobbiamo essere consapevoli del suo funzionamento e dei suoi risultati. Interrogarsi sugli strumenti di cui si ha bisogno (proprio come una volta ci chiedevamo se andare in questa o quella biblioteca) ci può aiutare a costruire i nostri percorsi personali nell’informazione, che non partono necessariamente da un motore di ricerca. L’attività di ricerca sempre più complessa e necessaria, e sicuramente non possiamo limitarci a usare gli strumenti che sono, fondamentalmente, semplici e gratuiti. Il primo passo è comprendere che l’informazione è prodotta dalle persone e non dagli strumenti: in qualche modo significa riappropriarci di ciò che produciamo. E forse è possibile immaginare infrastrutture tecnologiche i cui attori non siano solo i grandi server commerciali ma spazi autonomi (liberati?) di accesso all’informazione in cui la progettualità degli individui emerga anche tramite la costruzione dei propri strumenti.