Sull'Unità di giovedì 24 maggio è uscita una mia intervista a Steven Rose, biologo, che dirige il gruppo di ricerca sul cervello e il comportamento della Open University, in Inghilterra. Alla carriera di ricercatore Rose ha da anni affiancato un lavoro culturale, ritagliandosi un ruolo di critico della visione strettamente deterministica della natura e del comportamento dell’essere umano. Quella, per intenderci, che fa sì che i giornali possano titolare «trovato il gene dell’omosessualità».
Per Steven Rose il cervello (la struttura più complessa tra quelle prodotte dall’evoluzione) deve essere studiato usando strumenti più ampi di quelli che le moderne neuroscienze hanno a disposizione. Anche se la frontiera della conoscenza scientifica del cervello si sta rapidamente spostando verso risultati sbalorditivi: nel suo ultimo libro, Il cervello del ventunesimo secolo, Rose si è dedicato proprio alle conseguenze dello sviluppo delle neuroscienze e delle tecnologie di intervento sul cervello umano. Conquiste importanti ma delicate, nel momento in cui la possibilità di manipolare una mente umana si fa sempre più reale.
Professor Rose, scienza e tecnologia stanno esplorando sempre più a fondo il nostro cervello. La scienza svelerà i misteri della mente? «Non credo che le neuroscienze, da sole, saranno sufficienti per comprendere la mente e interrogarsi sulla questione della coscienza. Ad esse dovranno affiancarsi altri modi di indagare questi problemi, come la filosofia, le scienze sociali o la letteratura. Quello che la scienza può spiegare sono i meccanismi di funzionamento del cervello. Ma la complessità della mente è troppo vasta per poter essere ridotta alle sue componenti di base, che non possono rendere conto degli esseri umani, della loro capacità di agire, della loro socialità e delle loro emozioni».
Ma oggi noi disponiamo di strumenti per cambiare il cervello e adattarlo alle nostre vite e al nostro ambiente: i farmaci, per esempio. Ciò influirà anche sul nostro sviluppo culturale? «Certo, ci stiamo dirigendo verso una cultura nella quale potremo modificare in modo intenzionale la nostra mente, tramite farmaci o in altre forme. La farmacologia influirà sul nostro modo di pensare in modo sempre più complesso, con effetti nemmeno paragonabili a ciò che ha fatto, per esempio, l’alcool nella cultura occidentale. Per questo credo che la cosa più interessante sia indagare le possibili ripercussioni sociali. In particolare c’è un secondo problema, alla cui nascita stiamo già assistendo, che è quello del maggior controllo sociale. Alcune forme di comportamento stanno diventando problemi di tipo medico, basti pensare all'esempio dell’uso di psicofarmaci usati per controllare il comportamento dei bambini a scuola. Sto pensando anche al problema del Ritalin, usato per curare patologie di recente invenzione come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd)».
Quindi non è una questione soltanto medica? «Questi cambiamenti stanno comprimendo le nostre possibilità di adottare certi comportamenti all’interno delle nostre società. Per questo io credo che ci stiamo avviando verso l’"era del controllo", in particolare dopo l’11 settembre. Un esempio è l’uso del brain imaging, le tecniche di visualizzazione dell’attività elettrica del cervello, in campo giudiziario o per identificare potenziali terroristi, come è stato proposto recentemente negli Usa. Un buon esempio può essere quello di Darpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono, che ha diversi progetti diretti a scoprire se sia possibile modificare i comportamenti umani tramite tecniche di stimolazione cerebrale. Lo sviluppo delle neuroscienze solleva problemi complessi, che comprendono la sfida a comprendere cosa significhi essere umani, la possibilità di capire meglio il funzionamento del cervello e lo sviluppo di nuove cure per alcune patologie. Al contempo, però, c’è il grande problema di dare ai cittadini la possibilità di controllare e dirigere queste nuove tecnologie…».
Un problema di tipo etico? «Certamente: la neuroetica (la disciplina che studia le questioni etiche legate alla mente e alle neuroscienze), infatti, ha sollevato diverse preoccupazioni riguardo a questi temi. L’uso di farmaci per migliorare la nostra intelligenza e le nostre performance, ma anche il rischio del controllo sociale grazie a nuovi mezzi farmacologici e tecnologici sono questioni da indagare anche dal punto di vista etico. Credo, tuttavia, che il problema più urgente sia quello di mettere nelle mani cittadini il cammino della scienza e lo sviluppo delle nuove tecnologie: un percorso che comincia con il dialogo e l’informazione».