Gabriella Coleman: la politica degli hacker

L’hacking come cultura ma soprattutto come pratica politica. È su questa dimensione del mondo hacker che lavora Gabriella Coleman, antropologa di formazione e professoressa di Media studies alla New York University. Coleman da sempre sottolinea l’importanza di esperienze nate tra le comunità hacker e poi diffuse ai movimenti sociali (do you remember Indymedia?). Inoltre sostiene che gli hacker e le loro modalità di innovazione e di approccio alle tecnologie siano un elemento cruciale delle società basate sull’informazione. Coleman privilegia i gruppi di hacker più direttamente schierati su posizioni libertarie e con i movimenti sociali, che soprattutto da Seattle in poi hanno contribuito allo sviluppo dei movimenti ma anche allo sviluppo commerciale della rete, ed è un’osservatrice privilegiata del rapporto tra comunità hacker e politica, di cui spesso ha messo in luce le ambiguità e le differenze interne agli stessi hacker.

Qual è il ruolo degli hacker nel capitalismo di oggi? Stiamo parlando di una pratica di resistenza collettiva o di una capacità tecnica che viene venduta alle corporation?
Dipende, perché in Europa c’è una tradizione anticapitalista molto più forte legata all’hacking, per esempio in Italia, Spagna o Croazia. Negli Usa questa cultura è molto marginale, esiste ma è minoritaria. Anche se cose come il software libero, che non sono nate per combattere il capitalismo, contengono comunque in se una critica del lavoro alienato, anche se non si tratta di una critica vecchio stile. Possiamo dire che è una critica del neoliberismo, che cerca di privatizzare tutto e che è andato troppo in là. Il free software non viene prodotto sotto una bandiera anarchica ma è comunque una critica vitale e importante.

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Joshua Bloom: il lavoro a Los Angeles

Da zona franca del lavoro sottopagato e non sindacalizzato, Los Angeles si è trasformata in uno dei luoghi di innovazione nelle pratiche sindacali e nell’organizzazione di lavoratori e lavoratrici più poveri, precari e meno sindacalizzati, spesso latinos o asiatici. In particolare, un modello emergente tipico di L.A. è quello dei worker center: forme ibride tra minisindacati e movimenti di base, che supportano i lavoratori e le loro lotte. Piccole organizzazioni territoriali, di quartiere oppure legate a una particolare comunità di migranti, che agiscono sul territorio cittadino e sono spesso finanziate dai sindacati. Negli ultimi anni i worker center sono diventati un punto di riferimento per i lavoratori di L.A. e hanno conseguito importanti vittorie nel settore dei servizi.

Joshua Bloom, ex-sindacalista e ora ricercatore alla UCLA (Università della California di Los Angeles), è uno degli autori di “Working for justice. The L.A. model of organizing and advocacy”, da poco pubblicato da Cornell University Press e che raccoglie contributi da una decina di organizzatori e attivisti dei worker center di L.A. I casi riportati nel libro vanno dai tassisti ai lavoratori degli hotel dell’area dell’aeroporto, dai supermercati di Koreatown agli autolavaggi. In comune hanno un modello di organizzazione diverso dal sindacalismo tradizionale, legato al territorio e più adatto alle condizioni di elevata ricattabilità vissute dai lavoratori.

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Yann Moulier Boutang: ecologia e reddito

Copincollo qui sotto un’intervista a Yann Moulier Boutang, economista francese teorico del capitalismo cognitivo che ora fa parte di Europe Écologie, la federazione di verdi, associazioni ecologiste e movimenti che ha preso il 12% alle ultime regionali dopo un ottimo risultato anche alle europee. Mi sembra un documento interessante, leggetevi anche il loro programma. Ecologia, sviluppo, precarietà, reddito, crisi, produzione, prima cominceremo anche noi a tenere insieme queste parole prima anche l’Italia avrà una sinistra adeguata alle trasformazioni che stiamo vivendo.

«Ambiente e precari, noi abbiamo fatto così»

Parla l’ideologo dei verdi francesi

Ecolò è la nuova presa della Bastiglia. La bandiera vincente anti-Sarkozy. Uno «spettro» convincente (non più ideologico) che si aggira affascinando tutta l’Europa. Molto più di una suggestione perfino nell’Italia orfana delle sinistre. Yann Moulier Boutang, classe 1949, allievo e biografo di Louis Althusser, professore di scienze economiche e direttore della rivista Multitudes, incontra informalmente al bar del parco San Giuliano i «gemelli» veneziani. Yann è il «cervello» di riferimento per Daniel Cohn-Bendit, l’alternativa del ’68 rigenerata dall’ecologia politica.

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Food not bombs e Howard Zinn

Dicono che sia un movimento vecchio e con un ruolo soprattutto simbolico, ma Food not bombs continua a piacermi. E quelle due critiche sono sempre meno vere. La settimana scorsa a Milano è tornato uno dei suoi fondatori, Keith McHenry, che sta girando l’Europa per il trentesimo (trentesimo!) anniversario di FNB.

Ho saputo della morte di Howard Zinn mentre ero in ufficio con Keith: per lui è stato un lutto. Come aveva raccontato solo la sera prima, Keith è stato un allievo di Zinn alla Boston University e ha cominciato la sua militanza nel movimento pacifista anche grazie alla spinta dello storico americano popolare per eccellenza e a una campagna contro la centrale nucleare di Seabrook in New Hampshire.

Howard Zinn, di cui potete leggere un ricordo del suo periodo italiano sul Manifesto, un suo ritratto tracciato da Alessandro Portelli e un obituary collettivo di Noam Chomsky, Naomi Klein e Alice Walker su Alternet, è l’autore di People’s History of United States (in italiano Storia del popolo americano, Net, 10 euro). Nella sua storia le persone normalmente escluse dalla storiografia ufficiale diventano protagoniste e danno vita a una grande narrazione del ruolo delle persone semplici nella storia degli Stati Uniti.

Tutto torna, e sentire Keith parlare del ruolo (non più simbolico) di FNB a Nuova Orleans dopo l’uragano Katrina – la Croce rossa dava il loro numero per i problemi alimentari, dato che erano gli unici a essere presenti con più di venti cucine popolari nel territorio del disastro – oppure della rinascita, oggi, di un movimento di produzione e scambio di cibo dal basso negli Usa della crisi mi ha fatto riflettere su quanto ancora necessitiamo di raccontare la forza e l’importanza delle masse popolari e dell’autorganizzazione contro il mito delle corporation e dei big men.

La prossima volta che tornerà in Europa non perdetevelo, per quanto vi potrà sembrare solo un vecchio hippie americano, anzi quasi un hobo, un pazzo barbone giramondo, di cose da raccontare ne ha. 

 

John Wilbanks: clima e proprietà intellettuale

La scienza è un bene comune? È quello che pensano a Science Commons, una costola di Creative Commons, l’associazione americana che si occupa di proprietà intellettuale e diffusione della cultura e dei saperi. John Wilbanks, direttore di Science Commons, lavora da anni a pensare e organizzare modelli di innovazione aperti, in cui la partecipazione sia libera e i risultati accessibili a tutti, e alla scrittura di licenze aperte, alternative a brevetti e copyright. Insomma la scienza come commons, come bene comune. Gli abbiamo chiesto un parere sul clima e sul vertice di Copenaghen proprio dal punto di vista dei brevetti e dell’accesso ai saperi e alle tecnologie.


Perche le tecnologie verdi dovrebbero essere considerate un bene comune?

Il fatto è che avremo bisogno che molte di queste tecnologie interagiscano, per raggiungere gli obiettivi di riduzione della CO2, efficienza energetica, riduzione dei rifiuti, e progettazione di nuovi materiali. Ci sono campi diversi su cui giocano attori diversi. Se tutte le tecnologie più importanti devono essere comprate a caro prezzo, sarà molto difficile usarle insieme.
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Questa è casa mia, comando io

Oggi su Nazione indiana c’è uno dei racconti pubblicati da Katie Hepworth sul suo blog dedicato alle storie dei migranti che Katie, artista e ricercatrice australiana, ha raccolto a Milano. Alcuni di questi racconti mi sono piaciuti molto e fotografano le condizioni delle persone che Maroni e soci odiano così tanto. Ve li consiglio. Sotto ne copincollo un pezzetto, il resto potete leggerlo qui, in attesa della manifestazione nazionale contro il razzismo di sabato 23 maggio.

"Mio marito era un dottore, io sono un’infermiera. Io ero una della classe media nel mio paese, della media-alta società. Venire qua per fare la badante è stato un colpo molto duro… Mi sveglio alle sei di mattina, in silenzio, cosi posso fare colazione in segreto. Mi faccio la doccia mentre lei dorme. Andiamo a letto alle dieci, undici di sera. Aspetto che si addormenti e vado a farmi la doccia. Ma a volte quando sente la doccia si sveglia. Una volta facevo la doccia e lei è entrata: “Che fai? Sprechi acqua”. Ero nuda, ma ha aperto la porta. Mi vergognavo, ma lei ha detto “questa è casa mia, comando io”.

Anche in camera mia lei prende tutto. Sai, avevo una piccola scatola di legno con delle cose dentro, cose per farsi le unghie, e lei l’ha presa e l’ha portata in camera sua… Non mi chiede mai il permesso. Adesso che sono qui, sicuramente lei è in camera mia a guardare. Ogni sabato e domenica, nelle due ore libere, va lì e guarda. All’inizio mi faceva una rabbia… mi sentivo imponente. Ma lei dice che è casa sua, che non mi posso permettere di chiudere la stanza. Sai che la porta del bagno non la posso chiudere? Rimane sempre aperta. È per la sua sicurezza, ma la porta rimane sempre un po’ aperta."

Michel Bauwens: peer-to-peer dappertutto

Ecco la versione estesa dell’intervista che io e Espanz
abbiamo fatto a Michel Bauwens, che esce oggi sul
manifesto in un paginone di Chip&Salsa tutto dedicato all’open
source. Se non vi basta, qui potete leggere il suo saggio The Political Economy of Peer Production. Potete anche scaricare l’mp3 con l’audio del suo intervento a Milano qualche settimana fa.

Molti sono alla ricerca di un nuovo paradigma economico e sociale che prenda il sopravvento nel 21mo secolo. Michel Bauwens lo ha individuato nel peer to peer. E non parliamo solo di sistemi per scambiarsi file su internet, ma di un modo di produzione non gerarchico, decentrato e tra pari che esca da internet e contamini tutta la società. Bauwens, che insegna alla Dhurakij Pundit University di Bangkok, con la P2P Foundation si occupa di raccogliere e sistematizzare tutte le esperienze di cooperazione libera, tra pari, dal basso, open source. E’ l’evangelista del peer to peer.

Cosa intendi per P2P?
Tutti ormai usano programmi di file sharing peer to peer per scaricare video o musica. Ma l’uso che faccio io del termine è piu ampio e più profondo. Fondamentalmente in quei programmi ogni computer del sistema agisce come un pari tra altri pari. Non c’è un computer centrale da cui scaricate un film. Per me la caratteristica principale dei sistemi P2P è proprio la possibilità che danno agli individui di entrare liberamente in relazione con gli altri e di agire insieme. Possiamo chiamarlo network distribuito e decentrato, in cui il potere è spezzettato e diviso tra tutti. Pensate a un’autostrada, costruita da qualcuno tramite una decisione dall’alto, e a un sentiero nel bosco, che è il risultato del passaggio di diverse persone. Il risultato è simile, ma il tipo di interazione tra le persone è completamente diverso. Internet può essere usato come un’infrastruttura orizzontale che permette alle persone di connettersi, creare media, condividere file, lavorare insieme: la rete abilita dinamiche P2P.

Come funzionano le comunità P2P?
Le comunità di produzione tra pari sono basate su dinamiche sociali particolari: se sei un programmatore di sofware libero o se scrivi su Wikipedia sei un volontario non pagato, ma sei spinto dalla tua passione e da una forte motivazione. Questo è il sogno delle imprese: lavoratori motivati. Be’, nel mondo P2P le persone non motivate sono automaticamente escluse, perché non hanno altri motivi per partecipare, e questo ne fa un ambiente straordinariamente produttivo. E poi nella produzione tra pari c’è un nuovo modo di guardare alle persone, che io chiamo equipotentiality. Invece di decidere un modo di produzione e poi assumere persone per portarlo a termine, devo disegnare un compito e dividerlo in pezzi più piccoli possibili. Poi serve un sistema che permetta alla gente di far coincidere le sue idee, le sue capacità, con i compiti da svolgere, proprio come fa Wikipedia. Il meccanismo è basato sull’autoselezione. Bisogna aprire al massimo la partecipazione e creare controlli di qualità di tipo comunitario, creando un sistema basato sull’inclusione e non sull’esclusione.

E’ così rivoluzionario?
Per me questo è un punto di svolta sociale nella nostra civiltà. Per semplificare lo scambio di informazioni e di beni abbiamo dato vita a società gerarchiche. Oggi le nuove infrastrutture tecnologiche permettono una coordinazione globale di piccoli gruppi. Quindi la novità è che possiamo creare artefatti sociali molto complessi, come Wikipedia o Linux, senza bisogno di un’organizzazione gerarchica in cui qualcuno dica agli altri cosa devono fare: una moltitudine di individui e gruppi si coordinano e controllano il loro lavoro. Un cambiamento in direzione di relazioni e strutture P2P. Credo che in questo ci sia un grande potenziale di liberazione che conduce verso alternative aperte, basate sui beni comuni e sulla partecipazione che sono legate al P2P, in cui le gerarchie sono flessibili e le strutture aperte alla partecipazione.

Quali processi sociali vi stanno alla base?
Parliamo di tre nuovi tipi di processi sociali che ora avvengono non su scala locale ma su scala globale. Il primo è la produzione tra pari, cioè la capacità di produrre valore comune. Il secondo è la governance P2P, cioè la capacità di gestire questi processi senza ricorrere a gerarchia e centralizzazione. Il terzo è la proprietà P2P, cioè la possibilità di proteggere i beni comuni e dei prodotti del lavoro comune dall’appropriazione privata. Se chiudo l’accesso a un bene dicendo che è mio e non più tuo, be’… in questo modo distruggo l’intera comunità P2P. Questo non significa che questi beni o informazioni non possano essere usate da un’azienda, per esempio, per mezzo di licenze come quelle che proteggono il software libero. Tutti possono usarlo purché non lo privatizzino e rilascino i loro prodotti nel dominio pubblico.

Non è un orizzonte così semplice da intravedere
Infatti dobbiamo aprire la nostra immaginazione politica e sociale: siamo abituati a pensare all’alternativa tra stato e mercato. Da una parte privatizzazione e liberismo, dall’altra l’intervento dei governi per salvare le banche, per esempio. La produzione P2P ci invita a guardare a un terzo modo di trovare soluzioni politiche, economiche o sociali che siano organizzate sui gruppi umani.

Secondo te il P2P rimarrà limitato a nicchie di produzione o si espanderà?
La storia del capitalismo è fatta di grandi ondate di crescita basate su tecnologie rivoluzionarie. Ciclicamente, il capitalismo si trova di fronte a una crisi, e da queste crisi il mondo esce cambiato. Credo che ora stiamo andando verso qualcosa di simile: il mondo fondato sul sistema di produzione industriale sta crollando e non sappiamo cosa troveremo al suo posto. Probabilmente però le nuove tecnologie su cui si baserà il sistema futuro saranno il web e le tecnologie dell’informazione; esse stanno già crescendo alle periferie del sistema industriale. Il modello futuro dovrà includere l’apertura alla partecipazione e alla produzione peer to peer, proprio come il capitalismo di oggi ha dovuto inglobare le idee socialiste con il welfare e il suffragio universale, per esempio.

Quali sono le misure che proponi?
Dobbiamo favorire l’apertura delle infrastrutture, ovviamente. Ma abbiamo bisogno anche di tre tipi di istituzioni: la prima sono i beni comuni, che vanno protetti finanziando l’innovazione sociale, per esempio ricercatori che producono nuovi farmaci e invece di brevettarli li mettono a disposizione di tutti. Poi dobbiamo favorire le pratiche economiche sostenibili: sostegno alle piccole imprese che fanno innovazione sociale, per esempio. Infine è necessario sostenere quell’1% di persone che sono più attive nella produzione P2P. Infatti il 90% circa degli utenti di progetti P2P ne fa un uso passivo, il 10% contribuisce saltuariamente, e l’1% invece è composto da persone che lavorano al progetto a fondo. Questo 1% deve poter sopravvivere senza fare altri lavori. Le città e le regioni che sapranno dar vita a queste tre istituzioni saranno più interessanti per le comunità P2P ma anche per il business: saranno economicamente più forti.

Nessuno, però, ha ancora trovato il modo per difendere i diritti di chi produce contenuti gratuiti per il web
Per questo dobbiamo accelerare questo processo e favorire le domande sociali che spingono per il peer to peer, l’open access, i beni comuni. Già oggi in fondo assistiamo alla nascita di un welfare dal basso basato su beni comuni e P2P: ci sono comunità che vengono sostenute da aziende per portare avanti progetti P2P, per esempio quella del software open source. Ciò però non garantisce i singoli individui: c’è bisogno di un reddito di base per tutti, che permetta di affrontare i periodi di transizione da un lavoro all’altro o quelli in cui si passa dal mercato alla produzione P2P. Dopo la seconda guerra mondiale l’idea di un welfare universale sembrava un’utopia. Eppure l’abbiamo ottenuto. Anche oggi dobbiamo contemplare riforme radicali.

Hasta siempre, Abel Paz

Abel Paz, pseudonimo di Diego Camacho, forse l’ultimo vivente tra i combattenti della Columna Durruti ci ha lasciato il 13 aprile, nella sua Barcellona. Classe 1921, era giovanissimo quando combattè il fascismo nella guerra civile spagnola, ma da allora non ha mai abbandonato le sue idee anarchiche. Lo ricordo con le parole e una foto che cinocino gli ha scattato 3 anni fa nella sua modesta casa di Carrer Verdi, in Gracia, da cui mi portò a casa un suo libro con una dedica.

Soy anarquista y ser anarquista es ser una persona coherente (paz espiritual, la tranquilidad, el campo, trabajar lo menos posible, el suficiente para poder vivir, disfrutar de la belleza, del sol. Disfrutar de la vida con mayúsculas, ahora se vive en minúsculas). Tener una conducta personal. Llevar las ideas a la práctica al máximo, sin esperar que haya una revolución. Eso se puede hacer ahora. Es una concepción filosófica, es un estado de espíritu, una actitud ante la vida. Pienso que esta sociedad está muy mal organizada, tanto socialmente, como políticamente, como económicamente. Hay que cambiarlo todo. El anarquismo invoca una vida completamente diferente. Trata de vivir esta utopía un poco cada día.

Hasta siempre, Abel

Quel copione di Brunetta

Il solito ministro Brunetta è il nostro Pierino, il nostro Gianburrasca. Stavolta si è fatto beccare dall’Espresso per avere spudoratamente copiato uno dei suoi pochi libri "scientifici", quelli con cui (a sentir lui) stava quasi per vincere il Nobel per l’economia.

A quanto pare il nostro ha pubblicato nel 1987 (editore Marsilio), il suo capolavoro, Microeconomia del lavoro, copiando intere frasi e grafici in cartacarbone da un libro americano del 1970, Labor Economics di Belton M. Fleisher e Thomas J. Kniesner, che naturalmente non si è preso nemmeno la briga di citare in bibliografia. 

Fatevi due risate leggendo l’articolo dell’Espresso e se siete davvero feticisti potete anche scaricarvi il pdf con tutte le incredibili scopiazzature del nostro adorabile discolo, leggendo magari anche la lettera aperta che avevo pubblicato un paio di mesi fa. Quando avete finito di ridere, pensate che Brunetta è il ministro che sta mettendo in croce i dipendenti pubblici fannulloni, che dovrebbero vergognarsi, eccetera. Perché in Italia un incompetente, falso e gradasso come lui può diventare non solo professore ordinario ma addirittura ministro? Potere del vecchio PSI e di Berlusconi – per tacer del Maurizio Costanzo Show

Dieci tesi sull’economia della conoscenza – Franco Carlini

Dal Manifesto di ieri ripubblico queste tesi che avrebbero dovuto costituire il nucleo di un libro progettato da Franco Carlini prima della sua scomparsa. Come altre volte, Franco tralascia il lato "corporate" dell’economia del dono: c’è chi sulla cooperazione donata in rete dai milioni di utenti del web ci fa i miliardi, non solo chi ne fa un modo di produzione nuovo e orizzontale, non gerarchico ed egualitario. Ma mi sembrano un documento che certifica quanto intellettuali militanti come Carlini sarebbero ancora necessari per analizzare i mondi della rete e gli scontri tra diverse socialità e diverse pratiche politiche che la attraversano.

1. Nel 21esimo secolo sembra infine realizzarsi la società dell’informazione, anzi della conoscenza, più volte annunciata fin dagli anni ’60. Ciò avviene per effetto congiunto della commoditization dei beni materiali, della globalizzazione e delle tecnologie digitali sviluppatesi negli ultimi 30 anni. La conoscenza, da semplice strumento del potere e dell’economia (al servizio dell’innovazione), diventa merce essa stessa.

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