Cervelli in fuga anche dall’Africa. È questo l’allarme che periodicamente si alza dalle istituzioni scientifiche africane. Fin qui niente di nuovo, l’Italia è maestra nel mandare i migliori laureati all’estero e nel far di tutto per non farli rientrare. Ma in questo caso stiamo parlando di ricercatori davvero importanti per un continente afflitto da continui problemi alimentari e agricoli: gli agronomi.
Un nuovo programma internazionale sponsorizzato da un fondo statunitense di quasi 5 milioni di dollari cercherà di aiutare i ricercatori a restare in Ghana. Una misura preventiva, da attuare prima che la loro fuga abbia inizio. Infatti non si tratta solo di farli tornare: un agronomo che si forma e lavora sul terreno, nel suo paese, potrà contribuire molto meglio all’agricoltura locale rispetto a chi impara in un laboratorio in Europa o Stati Uniti, le mete preferite dai cervelli in fuga africani. Ora la Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA), presieduta da Kofi Annan, ex segretario generale dell’Onu, collaborerà con l’Università del Ghana, a Legon, per lanciare un centro di miglioramento delle sementi, e con l’Università di KwaZulu-Natal in Sudafrica. I primi corsi partiranno nel gennaio del 2008, e in dieci anni AGRA conta di formare 120 dottori di ricerca africani, cresciuti lavorando sulle piante africane e sulle loro malattie, spesso diverse dalle nostre.
Dovranno lavorare anche sul campo, per «migliorare e adattare le piante indigene o orfane necessarie per venire incontro ai bisogni alimentari dell’Africa». Infatti molte delle piante importanti in Africa, come manioca, sorgo, miglio, piantaggine non sono molto interessanti per i ricercatori dei paesi del nord del mondo. E quindi un agronomo africano che dopo la laurea ha ottenuto un dottorato in Europa studiando il genoma del grano si ritroverà (sempre che faccia parte dei pochi che decidono di tornare) a lavorare in un posto dove non si coltiva il grano e dove non esistono laboratori biotecnologici.
Il professor Eric Danquah, direttore del progetto all’Università del Ghana, lo ha provato sulla sua pelle, dato che si è specializzato in genetica dell’orzo a Cambridge, in Inghilterra. Peccato che in Africa non si coltivi orzo. «Quando vai all’estero, sei obbligato a studiare quello che si fa lì. Poche università straniere permettono di studiare vegetali africani, e comunque sarebbe meglio studiarle in Africa», ricorda Daquah in un’intervista rilasciata a Nature.
Riccardo Bocci, invece, è un ricercatore dell’Istituto Agronomico d’Oltremare di Firenze, che ha partecipato in Etiopia a un progetto bilaterale sul recupero e la valorizzazione delle varietà locali di frumento duro. Con la Ethio Organic Seed Action ha collaborato con i contadini e con i centri di ricerca regionali, come quello di Sinana, sperduto sull’altopiano etiope. Si tratta di dare stimoli ai ricercatori per restare, formandoli. «Non con finanziamenti a pioggia, ma legando i fondi alle attività svolte, impostando le linee di ricerca, incentivando lo sviluppo di competenze che possano essere valorizzate in loco, una volta finito il percorso di cooperazione, e magari finanziate dal governo». Per esempio con le metodiche di analisi delle proteine del frumento, i cui risultati possono diventare utili nella fase di selezione delle sementi e nel miglioramento delle varietà coltivate. Un lavoro che i contadini svolgono da millenni. Spesso, infatti, nei ricercatori africani si avverte «uno scollamento tra la realtà di ricerca e il lavoro sul campo», sostiene Bocci.
Ad auspicare una collaborazione più stretta con i saperi locali era stato lo stesso Kofi Annan: «dobbiamo mettere nelle mani dei contadini i semi giusti, rinforzando la partnership nella ricerca con le università locali». Annan sostiene che scienza e tecnologia possono portare miglioramenti significativi nella vita dei piccoli agricoltori, soprattutto se sanno intercettare i loro bisogni e valorizzare le loro conoscenze.
Il Manifesto, 4 ottobre 2007