I media, e la politica di palazzo, li hanno dipinti come il “popolo del no”, ostacolo al progresso e al benessere del paese, ignoranti, egoisti interessati solo al cortile di casa e magari anche violenti. Eppure i movimenti che si scontrano contro una certa idea di progresso non sono solo portatori di un’idea differente di sviluppo e di benessere. Sono anche un esempio di democrazia e di un nuovo modo di rapportarsi al sapere tecnico e alla politica.
Non lo dice un Beppe Grillo qualunque, ma uno studio sociologico che si è concentrato su due mobilitazioni simbolo delle lotte contro le devastazioni ambientali: contro la Tav in Val di Susa e contro il ponte sullo stretto di Messina. Le conclusioni sono state pubblicate in un libro, Le ragioni del no (Feltrinelli, 192 pagine, 11 euro) da Donatella della Porta e Gianni Piazza, due studiosi dei movimenti sociali che hanno deciso di puntare l’obiettivo sui “cortili” di casa nostra per trarne un quadro che ai problemi locali si allarga ad abbracciare tematiche di interesse ben più ampio. Ne abbiamo discusso con Donatella della Porta.
Perché la scelta è caduta su NoTav e NoPonte? Anche altre campagne hanno raccolto una mobilitazione molto vasta e hanno ottenuto successi.
Questi due casi ci interessavano per il valore simbolico, che è stato molto rilevante per entrambi, soprattutto in Val di Susa ma anche per il ponte sullo stretto. Inoltre si tratta di due casi sviluppati in due contesti sociali molto differenti: La Val di Susa a nord, in un territorio considerato normalmente ad alta densità associativa, il ponte in condizioni ben diverse. Tuttavia, nonostante le differenze ci siamo dedicati a cercare le caratteristiche comuni, in modo da poter fare un paragone tra due casi e confermare in modo più deciso alcune somiglianze. In comune avevano il fatto di essere due opere “strategiche”, ambedue riguardanti la mobilità.
Inoltre essendo due cosiddette “grandi opere” entrambe erano sottoposte a decisioni multilivello: a livello nazionale e sovranazionale (europeo), per esempio. In entrambi i casi si erano create delle coalizioni politiche trasversali a sostegno delle opere, e si era verificata la presenza di attori molto diversi dal lato della proteste: da quelli locali, che sono presenti tradizionalmente in questo tipo di mobilitazioni, ad altri attori come gli ambientalisti, i centri sociali, il movimento per la globalizzazione dal basso, i sindacati (un aspetto particolarmente interessante questo, dato che di solito le grandi opere vengono indicate come occasione di aumento dell’occupazione dai sindacati. In questi casi invece alle mobilitazioni hanno partecipato sia sindacati confederali a livello locale che sindacati critici). Il primo titolo che avevamo proposto per il libro era Voci dalla valle, voci dallo stretto, un modo per sottolineare l’intreccio di voci provenienti da aree diverse avvenuto anche attraverso il contatto reciproco.
Sono caratteristiche che vanno al di là degli obiettivi immediati?
Infatti, abbiamo notato che la presenza stessa di questo tipo di mobilitazioni crea una serie di effetti che non si limitano al successo o meno rispetto a una specifica rivendicazione. Ci sono anche delle conseguenze molto forti in termini di costruzione dell’identità, valorizzazione della partecipazione delle persone, e dall’altra parte anche molta attenzione al tema della democrazia. Sia all’interno dei movimenti stessi, sia nell’idea della partecipazione dei cittadini all’interno dei meccanismi della democrazia rappresentativa: insomma, non si chiede solo un cambiamento delle decisioni ma anche un cambiamento nel modo in cui queste decisioni vengono prese.
Scrivete: “la protesta come arena”. Cosa significa?
All’interno dei molti spazi creati dalla protesta vi è il dialogo tra le sue anime diverse. Non solo in vista di un accordo pragmatico, ma molto spesso con la costruzione di una visione comune che va al di là della rivendicazione specifica. Prendiamo i presidi in Val di Susa, il cui obiettivo iniziale e concreto era quello di impedire l’inizio dei lavori. Ben presto sono cambiati: venivano organizzati in modo ecologicamente compatibile, le decisioni erano prese attraverso metodi consensuali, con forme di deliberazione attraverso scambio di opinioni per arrivare alla decisione comune. Al contempo, sono diventati anche luoghi di utilità sociale. Nei presidi della Val di Susa ci sono feste e momenti di condivisione della vita quotidiana che contribuiscono a costruire un senso di comunità. Naturalmente all’interno di queste arene nascono anche tensioni, ma l’urgenza dell’azione comune non si limita a costringere a mettere insieme le forze: crea anche un senso di appartenenza condiviso.
In questo senso è stato importante anche l’uso dei simboli: per esempio la Resistenza in Val di Susa. Che tipo di scelta ha portato a sbandierare il passato partigiano della valle?
Non è stata una scelta strumentale ma una scelta corale, che abbiamo rintracciato nei discorsi di diversi attori. Nella valle c’era una storia che nella battaglia contro la Tav è stata riattivata. Nei movimenti sociali succede spesso che gli attori emergenti cerchino di rafforzare le loro radici storiche. Così, in Val di Susa il tema della Resistenza affiora spesso: la valle che resiste, il carattere combattivo del valligiano, il vecchietto della bandiera NoTav. E questa immagine ha una funzione direttamente aggregante. Così, il rischio di mostrare una chiusura nei confronti dell’esterno è stato scongiurato, perché questa immagine è stata affiancata a quella di una valle aperta, accogliente pur nella propria identità. Anche in Sicilia è stato attivato questo “orgoglio dell’isola” basato su una specificità territoriale. Dal punto di vista della comunicazione, insomma, l’uso dei simboli identitari è vincente se non viene presentato come un carattere di chiusura rispetto agli altri.
In queste mobilitazioni gli esperti vengono contestati e il sapere locale diventa più visibile. È il ruolo dell’esperto in generale a essere messo in crisi?
Anzi, in un certo senso la figura dell’esperto ne esce rafforzata perché non viene rifiutata. In molti movimenti le mobilitazioni contengono già sul nascere esperti che hanno posizioni alternative rispetto a quelle dominanti. È una caratteristica storica del movimento ambientalista (che è una parte importante di queste campagne) quella di sapere mobilitare saperi alternativi. Saperi di cui però si riappropriano gli attivisti. In Val di Susa per esempio molti attivisti si dimostrano più preparati dei tecnici che vengono mandati a parlare con loro, e questo mostra la capacità di contaminazione tra il sapere tecnico e il sapere locale che ci è sembrata tipica di questi movimenti ma anche per esempio di quelli contro il traffico urbano, contro gli inceneritori, Scanzano Jonico: movimenti in cui il sapere dei cittadini che si fanno esperti acquista molta rilevanza. I cittadini quindi non rifiutano gli esperti ma si appropriano del loro sapere tecnico perché ritengono che, per essere valido, esso debba confrontarsi con il sapere locale.
Per affrontare il problema dei rifiuti di Napoli il governo non ha mandato un esperto di rifiuti ma un poliziotto come De Gennaro. Un segno di debolezza?
La debolezza del governo ha avuto il suo peso, ma c’è stato anche un pregiudizio diffuso che ha diminuito la solidarietà nei confronti delle proteste dei comitati. Quello delle discariche è stato presentato come un semplice problema di ordine pubblico: una cosa che non si sarebbero permessi di fare in Val di Susa. Del resto in Campania i discorsi sull’infiltrazione camorristica nelle proteste o sulla sindrome nimby (Not in my backyard, non nel mio cortile) ha fatto molta presa anche sull’opinione pubblica di sinistra. Se l’appoggio alla lotta della Val di Susa era netto, nel caso di Napoli anche a sinistra si sono sentite molte stigmatizzazioni a priori nei confronti degli attivisti.