Da zona franca del lavoro sottopagato e non sindacalizzato, Los Angeles si è trasformata in uno dei luoghi di innovazione nelle pratiche sindacali e nell’organizzazione di lavoratori e lavoratrici più poveri, precari e meno sindacalizzati, spesso latinos o asiatici. In particolare, un modello emergente tipico di L.A. è quello dei worker center: forme ibride tra minisindacati e movimenti di base, che supportano i lavoratori e le loro lotte. Piccole organizzazioni territoriali, di quartiere oppure legate a una particolare comunità di migranti, che agiscono sul territorio cittadino e sono spesso finanziate dai sindacati. Negli ultimi anni i worker center sono diventati un punto di riferimento per i lavoratori di L.A. e hanno conseguito importanti vittorie nel settore dei servizi.
Joshua Bloom, ex-sindacalista e ora ricercatore alla UCLA (Università della California di Los Angeles), è uno degli autori di “Working for justice. The L.A. model of organizing and advocacy”, da poco pubblicato da Cornell University Press e che raccoglie contributi da una decina di organizzatori e attivisti dei worker center di L.A. I casi riportati nel libro vanno dai tassisti ai lavoratori degli hotel dell’area dell’aeroporto, dai supermercati di Koreatown agli autolavaggi. In comune hanno un modello di organizzazione diverso dal sindacalismo tradizionale, legato al territorio e più adatto alle condizioni di elevata ricattabilità vissute dai lavoratori.
Quali sono le pratiche che i worker center hanno utilizzato per organizzare i lavoratori migranti e non sindacalizzati?
I worker center hanno solo piccoli staff stipendiati, ma sono in grado di costruire forti legami all’interno delle comunità, individuando e coinvolgendo i leader religiosi, culturali e politici. Forniscono ai lavoratori supporto legale e capacità di rapportarsi con i media. Raccolgono informazioni vitali sull’azienda senza esporre i lavoratori al rischio di ripercussioni. Producono narrative di giustizia sociale e le usano per costruire “drammi pubblici”, cioè momenti di denuncia pubblica delle pratiche aziendali e del sostegno della comunità. Cercano sempre di ampliare al massimo il coinvolgimento diretto dei lavoratori. Fanno vertenze a livello di governo locale per migliorare le condizioni come salario minimo o altri benefit.
Se dovessi sceglierne una, qual è la caratteristica principale del “modello LA”?
L’intersezione tra organizzazione a livello di comunità locali e forme di sindacalismo più tradizionali. Un’organizzazione comunitaria da sola non riuscirebbe a fare sindacalismo. Quando ci provano, spesso vengono battute. Successe per esempio quando Kiwa (Alleanza dei lavoratori immigrati di Koreatown) cercò di organizzare i lavoratori nei supermercati coreani del quartiere. Non riuscirono a ottenere rappresentanti non perché non avessero il supporto dei lavoratori, ma a causa delle leggi sulla rappresentanza sindacale, che favoriscono le union, e per la mancanza di esperienza. Questa dinamica si è ripetuta in diversi casi.
Perché i sindacati investono in queste organizzazioni?
Il tasso di sindacalizzazione negli Stati Uniti è sceso ormai al 7% nel settore privato, e può essere anche più basso nel settore dei servizi, cioè il campo in cui i worker center intervengono maggiormente. Lì i sindacati sono semplicemente irrilevanti. Tuttavia i lavoratori hanno fiducia nelle organizzazione territoriali e delle loro comunità di appartenenza. Questi network sono profondi e possono essere una grande risorsa per i sindacati in termini di autorevolezza e capillarità del loro intervento. La combinazione tra know how e risorse dei sindacati e la forza della organizzazioni comunitarie che hanno un rapporto diretto con le persone e i loro bisogni fornisce un importante punto di partenza per creare strategie di successo. E ormai anche i sindacati maggiori, come Afl-Cio e Change to win, stanno adottando queste pratiche.
Puoi fare un esempio di campagna che ha avuto successo?
C’è il caso degli impiegati della sicurezza (portieri, parcheggiatori ecc), un settore davvero difficile: molti non volevano sentir parlare di sindacati. Si tratta di lavoratori spesso senza particolari competenze, che avevano un turnover del 200% all’anno prima della sindacalizzazione, salari più bassi del minimo, nessun benefit né sicurezza, licenziamenti rapidissimi. C’era una lunga coda di persone che potevano essere infilate in quel vestito, migranti illegali o persino homeless. In questo caso il sindacato ha costruito una relazione con le organizzazioni della comunità nera da cui provenivano molti lavoratori. La chiesa è diventata un partner molto importante e alcuni sacerdoti erano molto influenti. Quando cominciarono a rendersi visibili la risposta fu molto positiva. E poi le campagne si focalizzarono non sulle imprese che lavoravano in appalto ma direttamente sui proprietari degli edifici. Furono sempre organizzatori della comunità nera a far pressione sui proprietari per permettere la sindacalizzazione dei lavoratori, anche svelando aspetti di razzismo e usando i media in una campagna che durò diversi anni.
C’è un esempio in cui sia stata presa di mira non un’azienda ma un intero territorio?
Gli attivisti di Kiwa, per esempio, sono molto bravi a far sentire alla gente che l’organizzazione è lì per loro. Lavorano in un’area geografica specifica, chiamata Koreatown anche se in realtà sono coreani soprattutto i proprietari degli edifici, mentre i lavoratori ultimamente sono in maggioranza migranti latinos poveri. Kiwa si occupa soprattutto dei supermercati e utilizza tattiche creative per creare mobilitazioni di strada che ricevono molta attenzione da parte dei media. Non hanno paura di essere piuttosto radicali, per esempio di bloccare una strada o occupare un supermercato. E hanno capito come lottare in un’enclave etnica. È una lezione di strategia: cambiarono il loro nome in da Alleanza dei lavoratori coreani a Alleanza dei lavoratori di Koreatown… in un’enclave etnica i proprietari di negozi e catene commerciali beneficiano di questo brand coreano. Ci investono, in termini di immagine e relazioni. Per questo Kiwa decise di sfidare il brand e cambiarne il significato. Organizzarono grandi campagne per dare l’immagine di una Koreatown fatta di sfruttamento, una zona franca per i diritti dei lavoratori. Ma i padroni non vogliono che l’immagine di Koreatown sia quella, e alcuni di loro hanno cominciato a fare pressione sulle aziende incriminate, obbligandole ad accettare di migliorare le condizioni dei lavoratori.
Come proteggere lavoratori che sono molto ricattabili se decidono di lottare?
A volte con l’anonimato… i lavoratori forniscono le informazioni che possono essere usate per fare causa all’azienda, ma senza esporsi in prima persona. Nel caso dei pulitori, alcune union si sono alleate con aziende “buone” che assumono lavoratori sindacalizzati e che finanziano una terza parte (il Maintenance CorporationTrust Fund) per investigare sulle violazioni e per pagare gli avvocati che servono per fare causa alla concorrenza scorretta. Così è diventato più facile per i sindacati entrare in azienda: il margine di profitto dato dalle violazioni dei diritti dei lavoratori si è abbassato. È una strategia a lungo termine ma ha pagato, con grandi vittorie in termini di rimborsi in denaro da parte di ditte in subappalto che pagavano metà del salario minimo e magari usavano prodotti chimici pericolosi per la salute dei lavoratori.
Quali sono stati i miglioramenti per le condizioni dei lavoratori? A quale livello sono avvenuti?
Il livello base è quello dei lavoratori coinvolti direttamente, il livello aziendale. Ogni singola campagna ha avuto un impatto eccezionale sulle loro condizioni, con notevoli aumenti salariali e nei benefit (sanità, pensioni) di cui godono. Per migliaia di lavoratori si è trattato di una differenza radicale rispetto al passato. Ma anche a livello di settore ci sono stati miglioramenti. L’aumento della sindacalizzazione nei lavoratori della sicurezza ha portato benefici per tutti i lavoratori di quel comparto. Una vittoria in tribunale o un accordo con un’azienda rende consapevoli anche le altre imprese che possono andare incontro a enormi spese. Quindi la maggior parte delle imprese di medie e grandi dimensioni tendono a migliorare le condizioni dei lavoratori. È successo per i lavoratori dei supermercati, così come per quelli del tessile, per i tassisti e per chi lavora negli hotel.
Infine c’è un effetto a livello cittadino, regionale, e in parte in tutta la California. Los Angeles sta ribaltando il trend di desindacalizzazione che colpisce gli Stati Uniti: è uno dei pochi luoghi del Paese in cui il tasso di sindacalizzazione è in aumento. E poi union e organizzazioni locali sono in grado di esercitare influenza al livello polititico. La maggioranza degli eletti a LA ha legami significativi con reti di organizzazioni comunitarie. Si è creato così un ambiente politico più favorevole e ci sono diversi alleati che sono in grado di dar vita a miglioramenti a livello legislativo. E questo ha effetti su tutti i lavoratori.
Cosa vedi nel futuro di queste organizzazioni?
La cosa eccitante di Los Angeles è la densità di queste relazioni tra organizzazioni comunitarie e sindacati, che ha permesso loro di entrare stabilmente nel sistema politico. E questa è una promessa anche per altre città: queste collaborazioni non solo sono capaci di vincere singole campagne, ma se raggiungono una densità adeguata hanno il potenziale di modellare le istituzioni politiche.
Versione integrale di un’intervista uscita sabato16 ottobre 2010 sul Manifesto