L’hacking come cultura ma soprattutto come pratica politica. È su questa dimensione del mondo hacker che lavora Gabriella Coleman, antropologa di formazione e professoressa di Media studies alla New York University. Coleman da sempre sottolinea l’importanza di esperienze nate tra le comunità hacker e poi diffuse ai movimenti sociali (do you remember Indymedia?). Inoltre sostiene che gli hacker e le loro modalità di innovazione e di approccio alle tecnologie siano un elemento cruciale delle società basate sull’informazione. Coleman privilegia i gruppi di hacker più direttamente schierati su posizioni libertarie e con i movimenti sociali, che soprattutto da Seattle in poi hanno contribuito allo sviluppo dei movimenti ma anche allo sviluppo commerciale della rete, ed è un’osservatrice privilegiata del rapporto tra comunità hacker e politica, di cui spesso ha messo in luce le ambiguità e le differenze interne agli stessi hacker.
Qual è il ruolo degli hacker nel capitalismo di oggi? Stiamo parlando di una pratica di resistenza collettiva o di una capacità tecnica che viene venduta alle corporation?
Dipende, perché in Europa c’è una tradizione anticapitalista molto più forte legata all’hacking, per esempio in Italia, Spagna o Croazia. Negli Usa questa cultura è molto marginale, esiste ma è minoritaria. Anche se cose come il software libero, che non sono nate per combattere il capitalismo, contengono comunque in se una critica del lavoro alienato, anche se non si tratta di una critica vecchio stile. Possiamo dire che è una critica del neoliberismo, che cerca di privatizzare tutto e che è andato troppo in là. Il free software non viene prodotto sotto una bandiera anarchica ma è comunque una critica vitale e importante.
Nel tuo lavoro usi parole come “ambivalente” per definire l’hacking dal punto di vista politico. Cosa vuol dire?
Ci sono molti hacker che desiderano hackerare e non fare politica. Vogliono fare quello che vogliono e non essere disturbati dalla politica. Ma dato che le tecniche che usano hanno una dimensione politica, queste persone sono spesso costrette a confrontarsi con la politica. Questo è importante, perché molti smanettoni o hacker non si ritengono politici ma molti altri invece sì, e si preoccupano di cose che colpiscono la loro libertà, come per esempio la censura sulla rete. Ci sono moltissime forme politiche tra gli hacker, ma tra questi gruppi di persone molto diversi tra loro c’è comunque un dibattito vivace su ciò che è giusto fare.
Qual è il tuo esempio preferito di hacking come pratica progressista o come strumento di resistenza?
Dipende, non sono sicura di avere una pratica preferita, ma credo che il free software sia interessante perché è una pratica attuata su larga scala che non stava cercando di cambiare nulla al di fuori del software ma che alla fine ha cambiato un sacco di cose nel dibattito sulla proprietà intellettuale. E non stavano nemmeno cercando di farlo! Anche Anonymous mi piace. Non sono al 100% hacker ma piuttosto rappresentano il lato punk dell’attivismo in rete, sono irriverenti e molto populisti e anche se non sono d’accordo con tutto quello che fanno, la loro apertura a 360° è fantastica. Un po’ meno sexy e meno conosciuti, anche se hanno ormai una tradizione di vent’anni, progetti come Riseup e Autistici/Inventati mi piacciono (si tratta di due fornitori di servizi mail, blog, ecc, che garantiscono privacy e anonimato, ndr).
Quale consiglio daresti agli hacker italiani? Su cosa dovrebbero puntare?
Credo che la sfida oggi sia la difficoltà a raccogliere attenzione sul lungo periodo perché c’è un sacco di diversità nei media: ci sono Twitter, Al Jazeera, eccetera. Io farei una campagna che lavori con altri soggetti e che sia capace di catturare l’attenzione non per giorni ma per settimane e mesi. È quello che sono stati capaci di fare Anonymous, anche se magari non è quello che volevano. Ma le loro tattiche sono così folli, la loro politica è basata su dissenso e protesta e non è costruttiva… ci vorrebbe un programma politico che resti nelle coscienze delle persone per più di una settimana e non è per nulla facile.
Cosa ne pensi della possibilità di esportare l’hacking al di fuori del mondo del software?
Sia la biologia, sia l’hardware sono aree eccitanti. Soprattutto la biologia: io credo davvero che ci sarà un’esplosione massiccia di laboratori indipendenti e che l’attitudine hacker in questo settore decollerà. Non si sa in quale forma, magari non sarà politicamente rivoluzionario, ma è li che bisogna guardare. Vedremo poi se diventerà velocemente una pratica imprenditoriale o se sarà più indipendente dal punto di vista politico. Per ora non si stanno ottenendo grossi risultati ma magari tra 10 o 15 anni sarà diverso. Nulla accadrà a breve, ma i laboratori stanno nascendo e le capacità umane ci sono.
Che futuro vedi per il movimento hacker?
Gli aspetti politici degli hacker non sono nuovi, eppure oggi ci sono possibilità eccitanti. L’hacking non salverà il mondo (così come nessun’altra politica) ma resterà al centro della scena, visibile e importante. Quello che sta accadendo oggi cambierà il futuro che vivremo tra 20 o 30 anni, e se non vi prestiamo molta attenzione perderemo la possibilità di capire quello che succederà. Gli hacker sono qui per restare.
Da Il Manifesto del 25 giugno 2011
sarebbe anche la prima maglia di cui tutti capirebbero il senso (e chissà poi quale 🙂 ) anche non sapendo da dove arriva.
tibi cosa ne pensa 😛
Abbiamo deciso di fare delle nuove maglie di autistici: “A/I, siamo meno sexy, ma duriamo più a lungo” =D