Pochi giorni fa VeriChip, un’azienda statunitense produttrice di chip Rfid impiantabili, si è quotata in borsa, rilasciando 3,1 milioni di azioni a 6,50 dollari l’una nel mercato del Nasdaq. Il problema è che in tutto il 2006 solo 222 pazienti hanno scelto di farsi installare i suoi microchip sottocutanei.
Con questi soldi VeriChip spera di coprire almeno parte dei debiti contratti negli ultimi anni, ma le sue azioni stanno già perdendo quota. Nonostante il roboante annuncio secondo il quale soltanto negli Stati Uniti ci sono 45 milioni di pazienti che potrebbe aver bisogno dei loro microchip.
Impiantati nel braccio (nella regione del tricipide) o nella mano, questi chip trasmettono agli appositi scanner un codice a sedici cifre che può essere inserito in un database contenente i dati della persona che lo porta.
La Food and Drug Administration li ha approvati nel 2004 ma da allora i chip Rfid per uso medico hanno avuto poco successo. Vengono proposti, appunto, come «cartelle cliniche» per raccogliere i dati sanitari, da usare all’interno degli ospedali. Ma pazienti e dottori sembrano essere molto riluttanti a usarli, lo dice la stessa VeriChip: forse per via di tutti gli allarmi sulla privacy e i diritti civili che il loro ingresso sul mercato ha scatenato. Non per niente VeriChip è uno spinoff (una filiazione) della Applied Digital Solutions Inc., una società specializzata in sistemi di sicurezza.
I vertici dell’azienda ora hanno ammesso che «ad oggi la vendita dei kit per l’impianto dei microchip ha generato solo circa 100.000 dollari di entrate, molto meno di quello che avevamo stimato all’inizio del 2006. Potremmo non essere mai accettati dal mercato o non fare che vendite modeste o simboliche».