Dal Manifesto del 14 novembre un’intervista con Sara Horowitz, la studiosa e avvocato statunitense protagonista dell’esperienza di «Freelancers Union», un’organizzazione dei lavoratori «indipendenti» di New York. L’incontro e l’elaborazione di strategie di mutuo soccorso per resistere al «corporate business» nella Grande Mela.
Ci sono figure del lavoro che rivelano la portata delle
trasformazioni produttive avvenute nel sistema capitalistico; e ci sono
esperienze organizzative che stanno sfidando le forme tradizionali
della rappresentanza. Il variegato universo del «lavoro autonomo di
seconda generazione» – a cui Sergio Bologna ha dedicato una nuova
raccolta di scritti, Ceti medi senza futuro, al centro del seminario «Quale futuro per i lavoratori della conoscenza?»
che si è tiene il 15/11/07 all’Università La Sapienza di Roma – è
appunto tra questi.
O almeno è questa la scommessa di Freelancers
Union, organizzazione no-profit di New York che si è sviluppata
all’interno della costellazione del lavoro «indipendente» statunitense
(oltre il 30% della forza lavoro), offrendo a figure disperse nei mille
rivoli della metropoli risorse organizzative e strumenti rivendicativi.
La union si batte quindi per garantire le protezioni sociali a un «ceto
medio» precarizzato e impoverito. Allo stesso tempo, fornisce strumenti
di comunicazione e connessione, nonché svolge un ruolo di
intermediazione con lo stato e le imprese.
La Freelancers Union è dunque espressione dell’irreversibile crisi
della rappresentanza. Tema che viene spesso affrontato quando viene
svolge una critica agli orientamenti del labor movement e della
sinistra americana. Il problema, dunque, è interrogare l’esperienza di
chi tenta di andare oltre quella crisi, proponendo forme di autotuela e
organizzazione che con la rappresentanza tradizionale hanno poco a che
fare per analizzarne la ricchezza e le potenzialità, ma anche per
segnalarne i limiti. Ne abbiamo discusso con Sara Horowitz, saggista e
avvocata del lavoro, direttrice della union dei freelancers newyorchesi.
Nei decenni passati abbiamo assistito a grandi trasformazioni
produttive, processi di individualizzazione e frammentazione della
forza lavoro, mentre le organizzazioni tradizionali del labor movement
sono in crisi. Può spiegarci come, in tale contesto, nasce l’esperienza
di «Freelancers Union?»
Il modello di business che si è affermato negli Stati
Uniti scarica la maggior parte degli oneri sui lavoratori. L’obiettivo
che ci siamo prefissi è lo sviluppo di tutele per i lavoratori
indipendenti e garantire la loro sicurezza economica.
Per dirla in altri termini, state sperimentando una forma
organizzativa capace di innovare, o forse superare il sistema della
rappresentanza. Quali sono gli strumenti d cui vi siete dotati?
Il primo passo da fare è la presa di coscienza che i
lavoratori indipendenti sono una forza lavoro che hanno diritti negati.
È un passaggio necessario, visto che la sinistra tradizionale americana
continua a proporre un ritorno al sistema fordista per affrontare le
sempre più pesanti condizioni di vita e lavoro degli «indipendenti» o
di quella forza-lavoro che spesso in Europa chiamate precaria. Il
passaggio successivo sta nel promuovere forme organizzative adeguate a
figure lavorative con caratteristiche molto diverse da quelle che hanno
invece costituito le organizzazioni sindacali tradizionali.
Sono
cresciuta in una famiglia di sindacalisti e ho appreso dai miei
genitori la difficoltà e l’importanza di «fare sindacato negli Stati
Uniti». Oggi, tuttavia, le forme classiche dell’organizzazione
sindacale sono superate. Nel vecchio modello produttivo gli uomini e le
donne lavoravano in una spazio fisico – la fabbrica o l’ufficio – ben
preciso. Il sindacato non doveva fare altro che andare lì e provare a
organizzare i lavoratori. Adesso a New York molti lavoratori non vivono
questa condizione. La nuova forza lavoro è atomizzata, individualizzata
e frammentata. Abbiamo così cominciato a parlare tra di noi perché è
meglio ritrovarsi insieme che stare ciascuno per conto proprio. Abbiamo
così scoperto che ciò che accadeva a ognuno di noi non era un problema
individuale ma rispecchiava una condizione generale. Freelancers Union
è quindi da considerare un’associazione di mutuo soccorso, di
cooperazione….
In che senso…
L’obiettivo è individuare gli strumenti
per raggiungere una condizione di sicurezza e stabilità per i
lavoratori. Dopo la fase iniziale in cui abbiamo creato lo strumento
per incontrarci e discutere, ci stiamo concentrando sull’allargamento
della membership e sui nuovi strumenti di democrazia, orientandoci alla
costruzione di uno spazio economico di cooperazione. Dico questo perché
ci siamo accorti che senza uno spazio economico comune la base politica
sarebbe risultata fregile.
Vuoi dire che Freelancers Union oltre che organizzare i
lavoratori è anche una piccola attività economica che fornisce dei
servizi ai lavoratori?
Non proprio. Noi abbiamo lavorato allo
sviluppo di un forte network informale che si avvalga della dimensione
virale della comunicazione. Questo è stato possibile attraverso il web
e i blog. Inoltre a New York – dove si trova la maggior parte dei
nostri membri – abbiamo iniziato una campagna di promozione nella
metropolitana che, agendo sui flussi di attraversamento della
metropoli, ci ha permesso di raggiungere ogni giorno migliaia di
viaggiatori. È però ovvio che se un lavoratore chiede un servizio noi
lo forniamo.
Ha descritto alcuni dei punti di discontinuità rispetto al
modello organizzativo del labor movement. Ma come si pone «Freelancers
Union» rispetto agli strumenti di mobilitazione classici come lo
sciopero, utilizzati anche dagli autori dei programmi televisivi?
I
lavoratori indipendenti lavorano in differenti company e l’idea di uno
sciopero in una sola azienda in cui lavori per sei ore un giorno a
settimana non è una delle nostre principali strategie. Ma la questione
non è stabilire come un apriori se lo sciopero in quanto strumento di
lotta vada bene o meno. Lo sciopero va bene se è efficace, perché lo
sciopero è infatti uno strumento, non l’obiettivo di una lotta. È a
partire dalla nostra membership che dobbiamo costruire strumenti di
lotta e rivendicazioni.
Chi compone la «membership» di Freelancers Union?
Abbiamo
cinquantaseimila iscritti nella città di New York e la fascia di
redditi più ampia è quella tra i 25 e i 40.000 dollari all’anno.
Lavoriamo in settori produttivi tra loro eterogenei: dall’arte ai
media, alla finanza, le tecnologie, il no-profit, la salute ed il
lavoro domestico. L’ambito del lavoro creativo è quello più
consistente. Benché la composizione sia eterogenea, ciascuno ricava
benefici dall’essere parte del gruppo perché c’è l’opportunità di
condividere e mettere in comunicazione le esperienze, le informazioni
su questa o quell’impresa, su come evolve il mercato del lavoro in un
settore. Tra gli iscritti c’è un numero uguale di donne e di uomini,
mentre quella della race non è una problema rilevante nella nostra
organizzazione. A chi si iscrive alla Freelancers Union non chiediamo
il colore della pelle.
Su quale terreno si concentrano le rivendicazioni della union?
Con
regolarità emerge il tema della proprietà intellettuale. Il rispetto
del diritto d’autore o i limiti delle attuali leggi sono spesso
argomento che discutiamo, ma il problema più scottante è senza dubbio
quello della disoccupazione. Il nostro obiettivo è individuare un
processo di tutele e garanzie per i freelancers. Bisogna aggiornare le
protezioni sociali degli anni ’30: se in passato erano legate al
lavoro, oggi le cose sono cambiate, non possiamo delegare la risposta
allo Stato. Il governo dovrebbe soltanto aiutare a costruire
organizzazioni come la nostra.
Negli Stati Uniti ci si focalizza
soprattutto sul ruolo dello Stato come garante o meno dei servizi
sociali, mentre credo che si dovrebbe puntare a strategie che
contrastino anche il modello del business corporation. Guardiamo, ad
esempio, con molto interesse all’esperienza delle cooperative di lavoro
e di consumo italiane.
Crede cioè che il sistema delle cooperative sia la soluzione? In
Italia le cooperative sono state indicate come un espediente per per
rendere meno tutelato il lavoro….
Sono stata in estate in
Emilia Romagna e ho apprezzato come vengono affrontati alcuni dei
problemi che hanno i lavoratori indipendenti negli Stati Uniti. Mi
riferisco al pagamento delle tasse, ai contributi pensionistici. È un
modello di gestione del «capitale» a cui guardiamo con interesse perché
qui da noi esiste solo venture capital o charity capital. Per me, la
coalizione tra diverse figure lavorative è indispensabile per per
rafforzare le diverse figure lavorative della coalizione in relazione
ai continui mutamenti del sistema economico.
Negli Stati Uniti c’è un ampio dibattito sul concetto di
«creative class» proposto dallo studioso Richard Florida. In Italia
abbiamo invece assistito al rischio di scivolamento del lavoro creativo
verso un agire di lobby…
L’aspetto più rilevante nelle tesi
di Florida è laddove scrive del ruolo economico del lavoro creativo, un
aspetto tradizionalmente sottovalutato dal labour movement. Negli Usa,
gli artisti non sono considerati granché, mentre il discorso di Florida
permette di far comprendere ai policymakers quanto questi siano un
gruppo economico importante. A noi, tuttavia, non interessa separare la
forza lavoro in differenti gruppi. Semmai il nodo da sciogliere è come
usare la creatività per costruire un’organizzazione dei lavoratori
indipendenti o precari. Può sembrare paradossale, ma è importante
sottolineare il fatto che la forza lavoro in generale ha cominciato ad
avere sempre più cose in comune con gli artisti, alemno nelle forme e
nelle condizioni del lavoro: non avere l’assistenza sanitaria, avere
dei redditi intermittenti e che non consentono di programmare la tua
vita; non poter godere di nessuna delle protezioni create dal governo
negli anni ’30. Questo per noi è l’argomento potente del discorso sulla
creative class.
Anna Curcio, Il Manifesto, 14 novembre 2007