Clima e brevetti a Copenaghen

Tutti concordano su una cosa: per affrontare il cambiamento climatico non bastano soluzioni tecnologiche innovative. Bisogna anche che queste si diffondano il più possibile ed entrino a far parte di un nuovo modello produttivo a livello mondiale. La pressione sui paesi più poveri perché facciano la loro parte per ridurre le emissioni aumenta. Ma a loro serve accesso a basso costo alle tecnologie a bassa emissioni di anidride carbonica. Inoltre, i monopoli di conoscenza impediscono ai produttori locali di adattare le tecnologie ai bisogni locali: un’enorme spreco per un settore in cui la diffusione delle tecnologie potrebbe essere capillare. Il problema è che di mezzo ci sono i brevetti, e al vertice COP15 di Copenaghen ne parleranno i delegati di 190 paesi.

Tra gli osservatori che saranno presenti al vertice, per esempio, non mancano Wipo (Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale) e Epo (Ufficio brevetti europeo). Quest ultimo sta conducendo insieme al Programma per l’ambiente delle Nazioni unite un’analisi molto vasta dell’uso dei brevetti da parte delle aziende che producono tecnologie verdi, i cui risultati verranno presentati proprio durante le giornate di Copenaghen. Il Wipo stesso si è chiesto negli ultimi mesi se per le tecnologie verdi non sia possibile immaginare eccezioni al pagamento delle licenze, un po’ come avviene con i farmaci che possono essere «piratati» legalmente dai paesi poveri in casi di emergenze sanitarie. Il trattato Trips sulla proprietà intellettuale permette infatti di produrre tecnologie senza pagare i diritti “in situazioni di emergenza nazionale o altre circostanze di estrema urgenza”. Ma il protocollo di Kyoto non citava mai il problema dei brevetti. Eppure anche per le tecnologie verdi, come nei farmaci, c’è un problema di concentrazione: nel settore dell’eolico, per esempio, tre sole aziende si dividono la maggior parte dei brevetti per la produzione di turbine, generatori, eccetera. Per non parlare del fatto che il riscaldamento globale non è un’emergenza nazionale ma mondiale.

Lo scontro è aperto. Da una parte i detentori di brevetti e i paesi ricchi, dall’altra i paesi in via di sviluppo e gli attivisti che spingono per un modello di innovazione aperto, che dia a tutto il mondo la possibilità di innovare. Secondo il Wall Street Journal, “i diritti di proprietà intellettuale sono il poco apprezzato anello che fa funzionare la catena ambientalista”, e dovrebbero essere difesi dagli attacchi di “politici del mondo in via di sviluppo e attivisti poco informati”. Un altro attore in campo è IDEA, cioè la Innovation, Development and Employment Alliance, una lobby di detentori di diritti di proprietà intellettuale costituita da più di 50 imprese tra cui General Electric, il più grande produttore di turbine per energia eolica, o la Toyota, con le sue auto ibride (ma anche da Microsoft e Dow Chemical). Per loro parlare di licenze obbligatorie o di esclusioni è “una minaccia alle imprese e ai posti di lavoro” che sta inficiando le negoziazioni sul climate change. Intanto, 42 senatori Usa hanno chiesto a Barack Obama di resistere alle sirene dei paesi poveri e continuare sulla linea della difesa della proprietà intellettuale.

Sull’altro fronte, poche settimane fa il governo brasiliano ha chiesto di prendere in considerazione qualche forma di licenza obbligatoria, mentre il ministro per il cambiamento climatico dell’India (eh sì, loro hanno un ministro per il cambiamento climatico) ha ricordato al mondo che l’accesso alle tecnologie per le tecnologie a bassa produzione di CO2 dovrebbe essere considerato un bene pubblico globale. A giugno, il G77 (il gruppo dei paesi più poveri) e la Cina avevano addirittura proposto di escludere del tutto alcune tecnologie climate-friendly dalla brevettabilità e di favorire in ogni modo la condivisione delle tecnologie e del know-how pagate da fondi pubblici. Amelia Andersdotter, del Pirate Party svedese – che nel suo programma ha l’abolizione dei brevetti – le tecnologie per il clima sono speciali. “Anche se hanno molte similarità con altre tecnologie, gli investimenti sul clima sono molto urgenti, e questo è un buon punto di partenza per lanciare modelli di innovazione aperta e di trasferimento tecnologico sia all’interno dell’Europa, sia tra Europa e paesi in via di sviluppo”. Il Pirate Party parteciperà al contro-summit di Copenaghen per parlare del “potere della moltiplicazione delle idee” e dei problemi legati al climate change.

Un’altra proposta sul tavolo è la creazione di un pool tecnologico globale per il cambiamento climatico, cioè una risorsa che contenga un numero sufficiente di innovazioni sottratte al sistema dei brevetti e messe a disposizione di tutti, senza bisogno di pagare royalties. Come ricorda un po’ spaventato il Wall Street Journal, si tratterebbe di una forma di “socializzazione della proprietà intellettuale”. Gli argomenti pro-brevetti sono diversi. Per esempio, non sempre i prezzi di una tecnologia dipendono dai diritti brevettuali, ma dalla sua diffusione. E poi, come la mettiamo con i diritti dei paesi in via di sviluppo? La Cina, per esempio, è una delle principali detentrici di brevetti su pannelli solari e altre tecnologie per la produzione di energie da fonti rinnovabili. Tuttavia, il gap tra paesi ricchi e paesi poveri sembra essere lungi dall’essere colmato, e anche la proposte politiche sono divise sull’asse nord/sud e est/ovest. Da una parte i G77, dall’altra Usa, Canada, Giappone, Australia, Svizzera.

Secondo molte organizzazioni che si occupano di sviluppo ed ecologia, non si avanzerà molto se non si garantisce alle comunità dei paesi poveri – e magari più soggetti all’impatto del global warming – di migliorare i propri standard di vita e di sviluppare la propria economia. È questa la posizione per esempio del network SciDev (Science and Development), che però si dichiara pessimista. Un accordo non verrà certo realizzato a Copenaghen, sostiene il direttore David Dickson, e con l’aumento del mercato per queste tecnologie “gli stati più ricchi e le imprese aumentano la pressione per diritti di proprietà intellettuale ancora più stringenti”.

Leggi anche l‘intervista a John Wilbanks di Science Commons