Recensione: Geni a nudo

L’influenza della genetica e della medicina sulle nostre società è indubbia. Anche se a volte non si esprime in effetti diretti sulle nostre vite, e anche se le sue promesse non sono sempre mantenute. In questo libro Helga Nowotny e Giuseppe Testa si propongono di tracciare un quadro molto ampio e aggiornato delle trasformazioni legate all’emergere e all’affermazione delle biotecnologie contemporanee e di analizzarne le dimensioni etica, politica e sociale. Geni a nudo. Ripensare l’uomo nel XXI secolo (Codice, 15€, 184 pagine) ha innanzitutto il merito di riconoscere, come punto di partenza, che non è possibile trattare la scienza senza mettere al centro della scena i suoi rapporti con la società, e senza occuparsi di temi come la distribuzione del potere, il profitto o i modelli di democrazia messi in gioco dai cambiamenti scientifici. Da questo punto di vista le biografie dei due autori sono una garanzia di rigore scientifico e capacità di svelare gli aspetti sociali delle scienze della vita. Helga Nowotny è presidente del Consiglio europeo della ricerca e ha scritto opere fondamentali sul cambiamento dei rapporti tra scienza e società, sull’ingresso del mercato nella ricerca scientifica e sulle nuove forme di relazione tra università, impresa e ricerca. Giuseppe Testa è un biologo dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, ma oltre a dirigere un laboratorio che si occupa di cellule staminali è esperto di bioetica e sociologia della scienza e ha fondato un dottorato che analizza i problemi etici legati alle scienze della vita.

La raccolta di esempi è ampia e fornisce al lettore un quadro delle principali direzioni di evoluzione della biomedicina. Clonazione, riproduzione assistita, doping, biologia artificiale, test genetici sono tutti campi in cui l’avanzamento della conoscenza biologica è indistricabile dalle sue applicazioni pratiche. O meglio, in cui lo stesso processo di avanzamento della conoscenza avviene solo come approccio attivo alla materia vivente, che si tratti del corpo di un atleta di cui si vogliono aumentare le prestazioni oppure dei genomi batterici raccolti nei mari, sequenziati e poi utilizzati in progetti di biologia artificiale per produrre biocarburanti. Se oggi “capire la vita significa modificarla”, le distinzioni tra ricerca di base e applicata o tra scienza e tecnica sono saltate. D’altra parte, il rapporto tra individuo e la comunità viene sempre più spesso mediato dalle tecnologie biomediche, obbligandoci a riconoscere che le dimensioni politica ed etica della biologia non hanno più confini. Un tempo si sarebbe detto che la politica entra di prepotenza nei laboratori. Oggi è forse più preciso affermare che i laboratori sono usciti dalle proprie mura e la ricerca scientifica non è separabile dalla società nel suo complesso.

La “trasparenza” dei geni a nudo del titolo si riferisce anche alla possibilità per i cittadini di partecipare pienamente ai processi democratici legati alle biotecnologie e alla biomedicina. Le nuove possibilità di modificare la vita ci impongono di prendere in considerazione la necessità di modificare la democrazia. Secondo Testa e Nowotny le democrazie dovranno sempre più spesso interrogarsi su come garantire pluralità politica a nuove identità sia genetiche sia sociali, nuove “forme di vita” rese possibili dalle trasformazioni della biomedicina. Esempi ne sono i gruppi di pazienti che partecipano a sperimentazioni biomediche, oppure i clienti di un’azienda che fornisce analisi del genoma. Gli autori suggeriscono quali nuove istituzioni pubbliche potrebbero rappresentare luoghi di discussione e deliberazione pienamente biopolitiche. Questo libro è stato scritto per un pubblico globale, ma la sua edizione in italiano permette di riflettere su un tema che vede il nostro paese su posizioni piuttosto arretrate rispetto all’Europa. In alcuni paesi infatti esistono esperimenti di arene inclusive, luoghi e istituzioni che hanno il compito di aprire il dibattito ai diversi portatori di interesse e a chi sperimenta in prima persona i dilemmi creati dalle biotecnologie o da altri aspetti dell’impatto della scienza e della tecnologia sulla società. Favorire questo tipo di trasparenza, informata e partecipata, è un compito molto alto della politica.

Da Le Scienze, aprile 2012

Recensione: Biopunk di Marcus Wohlsen

“Se fossi un ragazzino oggi, sarei un hacker della biologia”. Non lo ha detto uno qualunque, ma Bill Gates, l’ex giovanissimo hacker brufoloso che sulle capacità e sulle tecnologie sviluppate dalla comunità hacker della Silicon Valley degli anni Settanta ha costruito un impero commerciale immenso che si chiama Microsoft. E infatti in questi mesi sta emergendo un movimento di quelli che si chiamano “biohacker” e si divertono ad applicare le forme di azione dell’hacking alla biologia.

Stiamo parlando di ragazzini che giocano a sequenziare geni, smanettoni che applicano le loro conoscenze informatiche al Dna, laboratori biologici abusivi costruiti nei garage californiani, e di una rete globale di scambio e condivisione di informazioni e conoscenze organizzata in rete con principi open source. L’hobby del movimento DIYbio, dove DIY sta per do-it-yourself, cioè fai-da-te, è la biologia.

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Cyberchiefs

Ecco la versione italiana di una mia recensione appena pubblicata da New Media and Society.

La lunga lotta tra la repubblica della libertà e il regno della burocrazia si è spostata su internet. Cyberchiefs. Autonomy and Authority in Online Tribes di Mathieu O’Neil (Pluto Press 2009) è uno dei primi tentativi di analisi sociologica delle strutture di potere del web in relazione alla celebrata autonomia che la rete darebbe ai suoi utenti. L’autore si concentra sulla relazione tra la ricerca di autonomia e i processi reali che regolano la produzione diffusa e orizzontale di contenuti che avviene in progetti come quelli di free software o nella blogosfera – esempi ben noti di un nuovo tipo di sistema produttivo reso possibile dal web collaborativo, o web 2.0. O’Neil propone di definire una nuova forma istituzionale che lui chiama burocrazia tribale online e che è peculiare di internet e diversa dalle forme di organizzazione precedenti.

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Affinità e divergenze tra chi organizza i lavoratori a L.A. e noi

Come introduzione ai movimenti che organizzano i lavoratori/trici dal basso mi sono letto questo Working for justice. The L.A. model of organizing and advocacy e poi sono andato a pranzo con Josh, uno degli autori. I capitoli del libro sono stati scritti in collaborazione con gli stessi attivisti, e sono focalizzati in particolare sul modello del worker center, cioè piccoli centri territoriali o di settore, forme ibride tra minisindacati e movimenti di base, che supportano i lavoratori e le loro lotte. In molti casi si tratta di lavoratori migranti, soprattutto latinos e coreani che formano la spina dorsale della forza lavoro losangelina. Si va dalla famosa KIWA, l’alleanza dei lavoratori di Koreatown, alle lotte di Justice for Janitors, fino a tassisti, lavoratori del tessile e degli autolavaggi.

Se è vero che da free shop del lavoro sottopagato e desindacalizzato, Los Angeles è diventata un punto di riferimento per le nuove forme di organizzazione dei lavoratori, il modello del worker center ha molte caratteristiche interessanti e in cui si riconoscono pratiche legate alla Mayday e ai Punto San Precario in Italia. In risposta a precarizzazione ed estrema ricattabilità, i worker center forniscono supporto legale e capacità di rapportarsi con i media. Costruiscono legami con i lavoratori per raccogliere informazioni vitali sull’azienda e organizzare mobilitazioni che non li espongano al rischio di ripercussioni. Producono nuove narrative di giustizia sociale coinvolgendo i lavoratori e le usano per costruire "drammi pubblici", cioè momenti di sputtanamento dell’azienda e di dimostrazione della forza dell’azione collettiva. Cercano di ampliare al massimo il coinvolgimento diretto dei lavoratori per fornire strumenti e per combattere la sensazione di impotenza che hanno nei confronti delle loro condizioni lavorative.

Ci sono però un paio di cose peculiari (a parte il fatto che i worker center dispongono sempre di personale pagato che lavora a tempo pieno). La prima è che possono fare vertenze a livello di governo locale per migliorare le condizioni di lavoro (salario minimo, benefit, eccetera). E poi costruiscono forti legami all’interno delle comunità, individuando e coinvolgendo i leader religiosi, culturali e politici. Questo modello ha portato a importanti vittorie, anche se le storie raccontate nel libro sono precedenti alla recessione che sta fustigando la California e imponendo tagli e salassi. Il Governator Schwartzenegger è campione di ingiustizia sociale, e non basterà un worker center a fermarlo.

La grande truffa della street art

Guardare Exit through the gift shop in un multisala di Hollywood è il modo migliore per apprezzare al meglio quelle che per me sono le doti principali di questo film. Attenzione, il regista è il famoso graffitaro inglese Banksi, ma non fatevi trarre in inganno. Il protagonista principale non è lui ma Mr. Brainwash, il nuovo galmourissimo street artist di Los Angeles, capace alla sua prima mostra di vendere pezzi per un milione di dollari ed essere chiamato a creare la copertina di un disco di Madonna. Dalla strada alle case dei collezionisti di Bel Air senza capire nemmeno bene il perché.

La prima parte del film, in cui l’antieroe Thierry, ossessionato dalla sua telecamera e cugino nientemeno che di Invader diventa il filmaker (e complice) di tutti i più famosi artisti della scena losangelina ed europea è fantastica. Esterno notte, camera a mano e si scalano muri, si incollano stencil, si ritagliano cartelloni pubblicitari, si scappa dalla polizia con personaggi del calibro di Invader, Shepard Fairey, Banksi, Zeus e chi più ne ha più ne metta.

La seconda parte è invece la rivelazione di Mr. Brainwash e della sua capacità assolutamente incredibile di svelare al mondo come l’estetica di strada possa essere trasformata in business e moda. E senza nemmeno pretendere di essere un artista! Un capannone a Hollywood, le giuste raccomandazioni, qualche decina di migliaia di dollari – basta ipotecarsi la casa – la copertina giusta sul giornale giusto, e ovviamente il palcoscenico di Los Angeles.

Questo film è il funerale della street art degli anni 00. Dopo averlo visto, non guarderete più uno stencil nello stesso modo. È un film fantastico, scaricatelo. 

Il vero dottor Stranamore

Alla famosa frase di Oppenheimer, che disse la bomba atomica aveva fatto conoscere ai fisici il peccato, il suo arcinemico Edward Teller rispose che piuttosto avevano conosciuto il potere. E al potere questo fisico protagonista del Progetto Manhattan e della successiva corsa agli armamenti è stato sempre vicino. Per esempio, è stato in grado di influenzare le scelte dei presidenti americani sullo sviluppo e l’uso delle armi termonucleari.

Il vero dottor  Stranamore. Edward Teller e la guerra nucleare (Raffaello Cortina, 592 pagine, 36 euro), il libro di Peter Goodchild, come la vita del padre della bomba a idrogeno imponeva, mescola fisica e politica ed è una ricostruzione molto interessante e documentata. Anche se a volte l’autore sembra pendere verso la simpatia per un personaggio così difficile da digerire come Teller, il suo libro è equilibrato nel raccontare gli scontri sostenuti e gli errori commessi, e ha il pregio di tentare di indagare anche gli intrecci di potere che ne hanno avviluppato l’attività.

Teller odiava il paragone con il dottor Stranamore, lo scienziato pazzo protagonista del film di Stanley Kubrick. Eppure fu il maggiore propugnatore dello sviluppo dell’arsenale nucleare americano, lo sponsor instancabile di numerosi test atomici, venne chiamato “il più grande killer della storia americana” e arrivò a proporre di usare la bomba per scavare un nuovo canale di Panama, il Canale panatomico.

Il suo concetto di deterrenza nei confronti dell’Unione sovietica a suon di bombe e scudi stellari gli valse l’odio dei pacifisti, una torta in faccia lanciata nientemeno che da Jerry Rubin (foto sotto) e più in là negli anni un ironico premio IgNobel per la pace “per aver dedicato la vita al cambiamento del concetto di pace quale era stato inteso sinora”. Proprio per questo, al di là delle valutazioni politiche, questo libro è un buon modo per capire quanto la scienza sia lontana dalla proverbiale torre d’avorio e quanto sia invece in grado di entrare nei luoghi dove si decidono i destini del mondo. 

(da Le Scienze di gennaio)

 

How-to fondare la comunicazione della scienza

Sul nuovo numero di Jcom (che tra parentesi ha finalmente adottato le licenze Creative commons) c’è una mia recensione di due libri collettivi pubblicati negli ultimi mesi. Sono manuali accademici sulla comunicazione della scienza che cercano di mettere qualche punto fermo in un campo in evoluzione ma che, nonostante i successi e la crescità della comunità che vi fa riferimento, continua a pagare pegno ai suoi cugini maggiori: gli STS (Science and technology studies) e il settore delle scienze della comunicazione. Mi sembrava interessante parlare del fatto che questo campo sta cercando di ritagliarsi uno spazio accademico, con alterne fortune: ma è davvero utile mettere nuovi steccati in un mondo così interdisciplinare e complesso?

Si tratta di Handbook of Public Communication of Science and Technology di Massimiano Bucchi e Brian Trench (Routledge 2008) e di Communicating Science in Social Contexts: New models, new practices di Donghong Cheng, Michael Claessens, Toss Gascoigne e altri (Springer 2008).

Potete scaricare il pdf qui, oppure continuare a leggere questo post

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Storia popolare della scienza

Ma la scienza chi la fa: solo gli scienziati in camice bianco? La domanda messa così è un po’ semplicistica. Ma alla faccia dei grandi personaggi eroici, i Galilei, i Darwin e gli Einstein, in Storia popolare della scienza (Tropea, 528 pagine, 24,90 euro) Clifford Conner ha deciso di ribaltare la prospettiva e raccontare la storia della scienza dal punto di vista degli artigiani, dei fabbri, degli operai e dei mercanti che hanno contribuito al suo sviluppo dal basso, senza gloria o riconoscimenti. Sulla falsariga di A people’s history of the United States, il capolavoro di Howard Zinn, Conner costruisce una storiografia al contrario e ci dà un punto di vista originale da cui osservare lo sviluppo della conoscenza scientifica.

Nella sua visione, dalla biologia aborigena a Linux la scienza è un prodotto collettivo, frutto dell’agire creativo della gente comune. Le classi dominanti si appropriano della conoscenza prodotta dal popolo per controllarla e goderne i benefici, e la Big Science è asservita ai bisogni dello stato. Sembra un seminario dell’Hackmeeting. Il suo punto di vista marxista a volte suona troppo rigido e anche un po’ ingenuo, ma su una cosa siamo d’accordo: vogliamo il riconoscimento della creatività dal basso e più controllo democratico sulla scienza! Sull’economia mondiale pianificata sono un po’ meno preparato…

Intanto ci cominciamo a godere un po di garage science?

 

Apocalypse Nerd! (Apocalisse ora!) – Peter Bagge

E va bene, Bush non c’è più, e con lui la sua cricca di guerrafondai e la loro lista di stati canaglia da cui il “mondo libero” doveva aspettarsi di tutto. Però nel 2003 un portavoce della Corea del Nord, uno dei paesi più cattivi e impuniti dell’Asse del Male, tanto per far capire al governo Usa di rivolgere i propri bombardieri da un’altra parte (si decise per l’Iraq, do you remember?) aveva dichiarato che il suo paese era in grado di colpire Seattle con un ordigno nucleare. La stampa americana non ci fece troppo caso, ma Peter Bagge, il fumettaro underground che vive proprio nella Emerald City della costa ovest degli Usa, si era un po’ impressionato. Come sarebbe stato sopravvivere in una Seattle nuclearizzata?

La risposta l’ha disegnata nel suo Apocalypse Nerd! (tradotto in italiano con un meno efficace Apocalisse ora!, Magic Press, 120 pagine, 10 euro), il suo ultimo fumetto in cui un nerd, cioè uno smanettone informatico tutto occhiali e mouse si ritrova nei boschi dello stato di Washington, profugo nucleare e orfano della civiltà a cercare di sopravvivere in un ambiente ostile e pieno di nemici. Tutto comincia con una semplice scampagnata tra le montagne e i boschi del Nordovest americano, per staccare per un paio di giorni dalla tastiera, dalla fidanzata che lo ha mollato e dai ritmi della città. Il problema è che Kim Jong Il, il cattivissimo leader nordcoreano che odia gli uomini capelloni ha lanciato la bomba atomica su Seattle, riducendola a un inferno invivibile da cui scappano migliaia di profughi radioattivi.

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Make music not money

Vedere il tuo liceo occupato dopo tanti anni ti ha fatto venire nostalgia della giovinezza? Niente, in confronto al libro Make music not money, Punk a Pavia 1990-2000: una raccoltona di storie, immagini, foto, flier, sulla storia dei DDI e del punk a Pavia e in Italia, una guida agli squat più loschi d’Europa e alle droghe più economiche degli anni novanta. Per presentare il video i DDI si sono riformati e sono in tour nei peggiori centri sociali del belpaese.

Un’ultima cosa: è un libro autoprodotto, lo trovate ai banchetti ai concerti oppure ordinatelo da loro. La qualità, non ci crederete, è ottima. Divertente, stampato bene, imperdibili i volantini dei concerti e l’estetica da fanzine punk taglia-e-incolla. Soprattutto però è una testimonianza pop ma radicale di un pezzo di controcultura italiana del decennio passato. L’idea di autogestione della musica che scaturiva in quei dischi e in quei concerti ha dato il suo contribuito anche alla cultura libertaria che oggi vive in una parte significativa di internet. 15 euro per 178 pagine formato gigante. Mi sembra di essere tornato ai tempi della Lega dei furiosi…