Recensione: Biopunk di Marcus Wohlsen

“Se fossi un ragazzino oggi, sarei un hacker della biologia”. Non lo ha detto uno qualunque, ma Bill Gates, l’ex giovanissimo hacker brufoloso che sulle capacità e sulle tecnologie sviluppate dalla comunità hacker della Silicon Valley degli anni Settanta ha costruito un impero commerciale immenso che si chiama Microsoft. E infatti in questi mesi sta emergendo un movimento di quelli che si chiamano “biohacker” e si divertono ad applicare le forme di azione dell’hacking alla biologia.

Stiamo parlando di ragazzini che giocano a sequenziare geni, smanettoni che applicano le loro conoscenze informatiche al Dna, laboratori biologici abusivi costruiti nei garage californiani, e di una rete globale di scambio e condivisione di informazioni e conoscenze organizzata in rete con principi open source. L’hobby del movimento DIYbio, dove DIY sta per do-it-yourself, cioè fai-da-te, è la biologia.

Marcus Wohlsen è un giornalista di San Francisco che negli ultimi due anni ha documentato la nascita di DIYbio e che ha appena pubblicato negli Stati Uniti un libro intitolato Biopunk (Current, 240 pagine, 22 euro, per ora pubblicato solo in inglese). Wohlsen ha intervistato tutti i protagonisti principali della nascita e dell’affermazione del movimento e ha seguito le loro peripezie a metà tra scienza e movimento sociale.

DIYbio è stata fondata nel 2008 da due ragazzi di Boston, Mackenzie Cowell e Jason Bobe e da allora si è espansa fino a raggiungere migliaia di persone in decine di città, diventare un argomento per i media di mezzo mondo e attirare l’attenzione di scienziati, politici e… dell’Fbi, che cerca di controllarli per evitare possibili problemi legati al bioterrorismo. Di bioterrorismo però non c’è traccia, e nessuno sta producendo patogeni geneticamente modificati nel garage di casa.

Piuttosto, i biohacker raccontati nel libro di Wohlsen stanno sperimentando forme di mettere la mani nella biologia e giocarci per usarla a scopi individuali, al di fuori delle istituzioni della scienza e senza bisogno di un dottorato o di un laboratorio miliardario. Il loro sogno è applicare alla biologia i fondamenti del peer-to-peer o del modo in cui funzionano Linux e Wikipedia: migliaia di utenti non-esperti che collaborano per produrre idee e conoscenze scientifiche di qualità migliore di quelle che escono dai laboratori dalle università.

Joseph Jackson è l’inventore di LavaAmp, un economicissimo termociclatore da usare per piccoli test genetici nel campo della qualità degli alimenti o della diagnosi di alcune malattie infettive, e si può usare direttamente sul campo. Andrew Hessel ha fondato la Pink Army Coop, cioè una piccolissima impresa che usa principi open source, di proprietà e finanziata da tutti i suoi membri. Il suo scopo è fare ricerca sul cancro al seno in vista di soluzioni personalizzate per i singoli pazienti. E così via.

La scienza amatoriale non è certo una novità. I movimenti di hobbisti, per esempio appassionati di razzi che cercano di emulare la Nasa, o di chimici che lavorano nella cantina di casa e ne escono con strani composti, non nascono oggi. Nel suo Storia popolare della scienza Clifford Conner racconta una storia alternativa dell’impresa scientifica, cioè non basata sui grandi scienziati come Darwin, Newton, Lavoisier, Pasteur, ma piuttosto sul “mondo di sotto”: operai, contadini, gente comune che al di fuori della luce dei riflettori ha ricoperto un ruolo importante per lo sviluppo della scienza, un contributo spesso misconosciuto all’avanzamento della conoscenza.

La biologia fai-da-te è evidentemente parte di quella storia, con la differenza che oggi alcune tecnologie avanzate usate nei laboratori scientifici cominciano a essere alla portata di tutti. Anche se per un semplice cittadino resta impossibile dotarsi delle apparecchiature da milioni di euro che si usano in ricerca biologica, i biohacker stanno correndo ai ripari in diversi modi, e il libro di Wohlsen lo documenta bene. Stanno per esempio costruendo apparecchi poco costosi e open source.

È il caso della OpenPCR, una macchina per la Reazione a catena della polimerasi messa in vendita per 500 dollari e le cui istruzioni si possono trovare tutte in rete, senza brevetti a impedire a chiunque di costruirla da se, modificarla, migliorarla, e distribuirne nuove versioni (la Pcr è un’analisi genetica molto diffusa che clona una sequenza genetica presente in un campione anche molto piccolo e ne fa milioni di copie per renderla riconoscibile, usata sia in medicina sia in altre applicazioni in cui si vuole verificare la presenza di un batterio o di un certo organismo).

Grazie a un finanziamento raccolto in rete con microdonazioni, due amici di San Francisco, Tito Jankowski e John Perfetto, hanno potuto produrre il prototipo e ora commercializzarlo. Oppure i biohacker organizzano laboratori comunitari sul modello degli hackerspace, cioè luoghi dove pagando un abbonamento mensile si partecipa alla costruzione di un laboratorio biotech che poi si può utilizzare a piacimento. Spazi simili stanno nascendo ovunque nelle grandi città americane e ora anche europee e asiatiche. Nella Silicon Valley nascerà Biocurious, mentre BiologiGaragen è già aperto a Copenaghen, Genspace a New York e La Paillasse a Parigi.

Sia chiaro, oggi nessuna di queste esperienze sta producendo buona scienza. Spesso anzi, si tratta di esperimenti poco originali e di bassa qualità, che difficilmente passerebbero il vaglio di qualità richiesto a una ricerca nel campo della biomedicina. Allora perché tanta attenzione per questo movimento? Non è chiaro se si tratti dell’inizio di una nuova industria, come fu per gli hacker dei computer negli anni sessanta e settanta, oppure solo di una nuova forma di diffusione della cultura scientifica o di partecipazione alla biologia.

Torniamo alla dichiarazione di Bill Gates: non è un caso che l’abbia rilasciata durante un’intervista a Wired, una rivista attenta alle innovazioni che provengono dal basso ma anche la rivista capofila di quella che  il sociologo inglese Richard Barbrook ha chiamato “ideologia californiana” cioè il neoliberismo sfrenato e l’ottimismo assoluto nella tecnologia che è nato dal miscuglio di hacker, hippie e yuppie della Silicon Valley. Il titolo Biopunk ovviamente racchiude la voglia di ribellione dei biologi fai-da-te. Infatti molti di loro si rifanno sia al movimento hacker sia all’etica do-it-yourself e ribelle del punk.

Tuttavia la dimensione politica di DIYbio è tutt’altro che radicale e spesso gli aderenti ai progetti di cui si parla nel libro sono piuttosto parte di un’ideologia diversa, in cui si attribuisce all’innovazione tecnologica liberata dalle burocrazie centralizzate e rimessa nelle mani dei cittadini la capacità di risolvere i problemi individuali in modo migliore, più efficiente e magari… più proficuo, dato che spesso i biohacker hanno in mente modelli di business alternativi a quelli delle università e delle aziende che oggi dominano il mercato. Certo, questo non esaurisce la storia.

I biohacker, semplicemente in quanto reclamano che tutti dovrebbero essere messi in grado di fare biologia, rappresentano una sfida ai poteri costituiti della scienza. Ma questo non significa che saranno davvero in grado di produrre innovazioni interessanti e tantomeno di distruggere il monopolio delle grandi aziende e delle grandi università all’interno dell’industria biotech. I laboratori comunitari che stanno sorgendo in America, Europa e Asia potrebbero rivelarsi un giocattolo per nerd con il pallino del Dna, un incubatore usato dalle imprese per accaparrarsi innovazioni provenienti dal basso, oppure l’embrione di una rete di pratiche di ricerca che sfugge alle burocrazie della scienza ufficiale e costruisce un modello di condivisione di saperi non basato su brevetti, segretezza e profitti.

Insomma, dai biopunk nascerà la Microsoft oppure il Linux della biologia? Oppure nulla? Nel dubbio, sgomberate il garage o la soffitta, spolverate i manuali di biologia dell’università e preparate il vostro laboratorio casalingo. Su Internet si trova un po’ tutto quello che vi serve per cominciare.

Da Il Manifesto del 16 luglio 2011. Leggi anche l’intervista a Steve Kurtz del Critical Art Ensemble