Dirty War Index: monitorare la guerra sporca

Ridurre la guerra e le sue vittime a numeri è sempre un’operazione pericolosa. Ci provano, su una rivista seria come PLoS Medicine, due ricercatori britannici che propongono di monitorare i risultati delle guerre usando il DWI, Dirty War Index. Per calcolarlo, bisogna scegliere un tipo di vittima "illegale" del conflitto, poniamo i civili uccisi, e calcolarne la percentuale sul totale dei morti. Più si avvicina a 100, più indica un conflitto che viene combattuto con mezzi criminali.

Non so, però, se davvero utilizzare un indice come questo – simile ad altri come l’Indice di sviluppo umano o quello che misura la corruzione – potrebbe "mettere in dubbio la reputazione, la legittimazione, le risorse future o lo stesso potere" dei leader politici e militari che conducono una guerra, come dicono Hicks e Spagat, gli autori del DWI. Certo, essi "non vogliono solo vincere. Vogliono anche avere un’autorità morale superiore". In questo momento a Gaza i calcoli sui bambini palestinesi uccisi o sugli edifici civili colpiti darebbero un Dirty War Index infamante per Olmert, Livni e l’esercito israeliano. 

Ma la politica non è matematica. I leader criminali di Israele sventolando lo spettro di Hamas riescono a giustificare il bombardamento indiscriminato di aree urbane densamente abitate, di moschee, addirittura di edifici ONU e strutture sanitarie di organizzazioni straniere. Intanto il loro consenso elettorale cresce, e le speranze per un futuro accettabile per il popolo palestinese sono carbonizzate sotto le bombe.

 

Raid Gaza! Il videogame

Rilancio da Molleindustria la segnalazione di questo nuovo instant game: RAID GAZA!

Raid Gaza!
è un gioco semplice e diretto perchè, a volte, per interpretare gli
eventi non servono particolari sofisticherie e relativismi. Ora più che
mai appare chiaro che Israele non ha alcun interesse a perseguire una
soluzione pacifica al conflitto Israelo-Palestinese. In fondo chi mai
accetterebbe compromessi con una potenza militare senza paragoni, il
supporto incondizionato degli USA ed un’economia che marcia su tecnologie militari e sicurezza?

Questo semplice non-dilemma è alla base del gioco online. Raid Gaza!
rappresenta alla perfezione l’asimmetria del conflitto in corso,
solletica le pulsioni militariste del giocatore e lo spinge ad
interrogarsi sulle sue azioni. E’ davvero così divertente sparare a dei
pesci in fondo un barile? 

How-to fondare la comunicazione della scienza

Sul nuovo numero di Jcom (che tra parentesi ha finalmente adottato le licenze Creative commons) c’è una mia recensione di due libri collettivi pubblicati negli ultimi mesi. Sono manuali accademici sulla comunicazione della scienza che cercano di mettere qualche punto fermo in un campo in evoluzione ma che, nonostante i successi e la crescità della comunità che vi fa riferimento, continua a pagare pegno ai suoi cugini maggiori: gli STS (Science and technology studies) e il settore delle scienze della comunicazione. Mi sembrava interessante parlare del fatto che questo campo sta cercando di ritagliarsi uno spazio accademico, con alterne fortune: ma è davvero utile mettere nuovi steccati in un mondo così interdisciplinare e complesso?

Si tratta di Handbook of Public Communication of Science and Technology di Massimiano Bucchi e Brian Trench (Routledge 2008) e di Communicating Science in Social Contexts: New models, new practices di Donghong Cheng, Michael Claessens, Toss Gascoigne e altri (Springer 2008).

Potete scaricare il pdf qui, oppure continuare a leggere questo post

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Avrei voluto abbonarmi a Wired Italia ma non voglio offerte commerciali

A febbraio uscirà Wired Italia. Le folle nerd italiche sono in tripudio 🙂 Vado sul sito per abbonarmi e scopro che invece delle classiche due caselle di consenso per la privacy, una per il trattamento dei dati personali e un’altra per ricevere offerte commerciali, ce n’è una sola.

Non è possibile abbonarsi senza dare l’assenso a usare i propri dati per "l’esecuzione di attività finalizzate all’invio di comunicazioni
commerciali, vendita diretta, manifestazioni a premio e similari,
nonché, per gli stessi fini, alla loro comunicazione ai soggetti nostri
partner commerciali in attività di co-marketing e iniziative
commerciali".


Se non l’avete capito, significa dare l’autorizzazione a farvi chiamare a casa al sabato mattina per proporvi offerte di adsl e piani tariffari vari. Sono convinto che non sia legale non permettere ai clienti di scegliere. Comunque non mi abbono, e ripensandoci non è detto che sia un male.

RETTIFICA:

oggi, 17 febbraio 2009, mi ha scritto l’editore di Wired Italia per chiarire che non è obbligatorio barrare la casella sul trattamento dei dati personali. La mail recita:

La privacy policy utilizzata
è corretta in quanto nella prima parte informa la persona in procinto di
abbonarsi che il conferimento dei suoi dati personali è obbligatorio ai fini
dell’esecuzione dell’abbonamento e poi aggiunge che se l’abbonato è interessato
a ricevere comunicazioni commerciali da parte di nostri partner può (non deve)
barrare la casella sottostante.

In effetti leggendo meglio, il testo specifica che barrando la casella si autorizza l’invio di comunicazioni commerciali ecc. Si può anche non barrarla, però, e l’abbonamento resta valido (e questo non è spiegato molto chiaramente). 

Di solito però ci sono DUE caselle, una per il trattamento dei dati personali, l’altra per l’invio di offerte commerciali e altri fini. Leggendo sul sito del Garante della privacy, il Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, cioè il Codice in materia di protezione dei dati personali, mi pare però di capire che l’autorizzazione dovrebbe essere esplicita:

Art. 23. Consenso
1. Il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato.
2. Il consenso può riguardare l’intero trattamento ovvero una o più operazioni dello stesso.
3. Il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, se è documentato per iscritto, e se sono state rese all’interessato le informazioni di cui all’articolo 13.

Detto questo, non sono un avvocato e sinceramente non riesco ad andare oltre. Abbonatevi ma non date il consenso al trattamento dei vostri dati – sempre se non volete ricevere offerte commerciali!

Storia popolare della scienza

Ma la scienza chi la fa: solo gli scienziati in camice bianco? La domanda messa così è un po’ semplicistica. Ma alla faccia dei grandi personaggi eroici, i Galilei, i Darwin e gli Einstein, in Storia popolare della scienza (Tropea, 528 pagine, 24,90 euro) Clifford Conner ha deciso di ribaltare la prospettiva e raccontare la storia della scienza dal punto di vista degli artigiani, dei fabbri, degli operai e dei mercanti che hanno contribuito al suo sviluppo dal basso, senza gloria o riconoscimenti. Sulla falsariga di A people’s history of the United States, il capolavoro di Howard Zinn, Conner costruisce una storiografia al contrario e ci dà un punto di vista originale da cui osservare lo sviluppo della conoscenza scientifica.

Nella sua visione, dalla biologia aborigena a Linux la scienza è un prodotto collettivo, frutto dell’agire creativo della gente comune. Le classi dominanti si appropriano della conoscenza prodotta dal popolo per controllarla e goderne i benefici, e la Big Science è asservita ai bisogni dello stato. Sembra un seminario dell’Hackmeeting. Il suo punto di vista marxista a volte suona troppo rigido e anche un po’ ingenuo, ma su una cosa siamo d’accordo: vogliamo il riconoscimento della creatività dal basso e più controllo democratico sulla scienza! Sull’economia mondiale pianificata sono un po’ meno preparato…

Intanto ci cominciamo a godere un po di garage science?

 

Normali marziani. Avvertenze e istantanee dall’Italia di dopodomani

Domani, sabato 13 dicembre, chi vuole sentire parlare di City of Gods e Serpica Naro (e non solo) si faccia vivo a Normali Marziani. Avvertenze e istantanee dall’Italia di dopodomani all’Opificio Telecom in via dei Magazzini Generali a Ostiense (Roma).

Qui trovate il programma della giornata. Copincollo due righe:

La giornata nasce da un’insoddisfazione e da una scommessa: insoddisfazione per come il mondo delle nuove generazioni adulte italiane è rappresentato, quasi sempre in bilico fra una disillusa  rassegnazione verso un presente vissuto come luogo di sconfitta, di frustrazione, di incapacità e una perpetua ed infantile regressione narcisistica. La scommessa è un atto di convinta resistenza a questa martellante rappresentazione mainstream.

Esistono nuove forme di espressione, di lavoro, di organizzazione, perfino di alimentazione – come il buffet della serata vuole ricordare – vissute e sperimentate da una generazione nuova, adulta, intelligente, capace di progettare il presente guardando il futuro, immaginandolo armonico, potente e libero. Questa galassia di progetti e di sperimentazioni se guardata dall’Italia di oggi può forse apparire irrealistica, solo possibile, comunque sideralmente lontana: chi non si percepisce e non vuole essere rappresentato come un eterno ed insoddisfatto enfant può paradossalmente apparire come un marziano.

Ma è la normalità di questi tempi ad essere fuori da ogni senso, logico e prospettico. Mettiamola così: siamo normali marziani e abbiamo chiaro che il nostro lavoro non è altro che quello di riprenderci la Terra.

Adam Arvidsson: l’Onda e il web

Come si fa a disgiungere l’Onda, e più in generale i movimenti sociali degli anni 2000, dall’uso del web? Sarebbe come pensare al maggio francese senza i manifesti serigrafati o le scritte sui muri. Da Indymedia ai blog degli studenti in mobilitazione, siamo ormai abituati a leggere e produrre notizie e punti di vista, e a discutere con gli altri su Internet. Nel corso degli ultimi anni articoli, libri, ricerche sul ruolo della rete nei nuovi movimenti si sono sprecati.

Ma sono i media a determinare i movimenti? Che ruolo hanno quindi i blog, Facebook, YouTube e gli altri media collaborativi, cioè quelli che chiunque può produrre gratuitamente dal computer di casa? L’ho chiesto ad Adam Arvidsson, un sociologo che da Copenhagen è arrivato da poco alla Statale di Milano. Arvidsson si occupa di media digitali e comunicazione ma anche del ruolo dei brand nella cultura dei consumi.

La protesta corre sulla rete?
I media che troviamo sul web non sono altro che i media che sono entrati nella pratica quotidiana della nostra generazione, quindi usare Facebook non è poi diverso da usare il telefono: il tempo del feticismo della rete è passato. Non penso che l’uso di internet cambi di molto le dinamiche della protesta. Ovviamente è utile per mobilitare e diffondere informazioni in modo più efficiente del classico volantinaggio, ma non causa cambiamenti radicali.

E questo movimento usa media commerciali invece di produrre i suoi stessi media, come si fece con Indymedia qualche anno fa.
Non so se usare piattaforme commerciali o meno sia molto differente. In fondo le aziende del web 2.0 hanno costruito delle proprietà immobiliari virtuali. Tu crei una piattaforma, per esempio MySpace, che è stata venduta a Murdoch nel 2005 per miliardi e miliardi dollari, genera un cash flow di pubblicità di 16 miliardi di dollari all’anno. Ma questa pubblicità acquista valore in quanto entra nei flussi di comunicazione… si tratta di disturbare un minimo questi flussi di comunicazione per inserire spazi pubblicitari, ma ciò non influisce troppo sull’uso dei media.

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Alta velocitĂ  ma non per tutti

Trenitalia ha pubblicato il nuovo orario: dal 14 dicembre entra in servizio il Frecciarossa, treoremmezza da Milano a Roma, e gli altri treni devono cedere il passo. Come previsto da anni dai critici dell’Alta velocità, il tempo risparmiato da chi potrà permettersi i treni ultraveloci (che tra l’altro paghiamo tutti, e profumatamente) viene compensato con ritardi per la massa di pendolari che coprono brevi distanze tutti i santi giorni per andare al lavoro.

Tradotto: il manager e l’onorevole faranno Piacenza-Roma in due ore una volta al mese. L’impiegato, Piacenza-Milano in un’ora e rotti tutti i santi giorni: la novità infatti è che circa metà dei treni che usa quotidianamente impiegheranno cinque minuti più di prima per portarlo a Milano Rogoredo al mattino e poi a Piacenza alla sera. Che in Val di Susa non fossero proprio solo dei montanari contrari al progresso? Vabe’, la consolazione è che possiamo dire "noi l’avevamo detto". Spero non mi sentano i pendolari piacentini.

Onda Card: la crisi può aspettare

Dopo quattro anni, e qualche processo, si torna a fare attivismo pop nei luoghi del consumo: “La crisi del neoliberismo deve essere pagata dalle banche e dalle
aziende che hanno speculato sulla vita e sul futuro dei cittadini,
dovranno essere loro a pagare i costi di attivazione dell’Onda Card”.