Utili, indispensabili, ma mai neutrali. Sono le tecnologie riproduttive e genetiche, i cui effetti sulle donne, ma non solo, sono legati a diversi fattori: la classe sociale, la posizione geografica, gli interessi delle aziende. Lo sostiene Marsha Tyson Darling, studiosa statunitense e membro del Global Network for Women’s Reproductive Rights.
A Wonbit, il convegno su donne e biotecnologie che si è tenuto a Roma dal 21 al 23 giugno scorsi, Darling ha parlato di «Genere e giustizia nell’era del gene». La sua attenzione alle questioni sociali la ha portata a parlare di un «consumismo» riproduttivo, che ha effetti diversi alle diverse latitudini e che coinvolge classi e generazioni diverse.
Se infatti «le tecnologie riproduttive e genetiche emergenti hanno tantissimi effetti positivi», è vero anche che «alcune questioni, che hanno a che fare con i rischi e con gli impatti negativi sulle donne, restano sottovalutate».
L’esempio da cui parte Darling è quello della diagnosi pre-impianto: «In paesi come India e Cina, queste tecnologie hanno già degli effetti, anche se non è facile calcolarli con precisione. In India la diagnosi pre-impianto si sta diffondendo nelle aree urbane e tra le classi medio-alte. In altre aree, sono diffuse tecniche come l’amniocentesi e l’ecografia, usate per conoscere il sesso dell’embrione e abortire quando si tratta di una femmina. In questo modo alcune zone hanno un rapporto tra maschi e femmine totalmente sbilanciato in favore dei primi».
Si tratta di problemi che si fanno sentire, in modo differente, anche nei paesi più ricchi: «Negli Stati Uniti le tecnologie della riproduzione sono oggetto di quello che io chiamo “consumismo”: sui giornali ci sono pubblicità che invitano le donne a scegliere il sesso dei loro figli: per esempio, per una famiglia che ha tre figli maschi e vorrebbe una femmina. Molti risponderebbero che si tratta di scelte personali. Bene, ma cosa accadrà nello spazio di una generazione?»
I motivi, secondo Marsha Darling, non solo soltanto sociali ma anche economici, infatti «una delle cause di questa accelerazione nell’uso delle tecnologie è la privatizzazione della scienza. Una generazione fa, gli standard di cura erano maggiori. Oggi l’industria biotech vuole brevettare in fretta le scoperte e utilizzarle subito. Quindi il controllo pubblico è minore, ed è più difficile prevedere l’impatto delle tecnologie».
Il problema non è limitato alle tecnologie della vita. Darling racconta di una conferenza sulle nanotecnologie cui ha assistito pochi mesi fa: «c’era un’unica sessione sul rischio, nella quale diversi avvocati chiedevano di prepararsi al fatto che qualcosa risulterà dannoso per le persone. Ma non li ho sentiti chiedere di rallentare la ricerca per testare i prodotti prima che noi li utilizziamo. Dicevano soltanto “dobbiamo essere competitivi, far uscire i nuovi prodotti e aspettarci che prima o poi succederà qualcosa”. A pagarne le conseguenze saranno i più poveri, che quando vengono investiti dagli effetti negativi di una tecnologia non hanno i mezzi per difendersi».
Per le donne, Marsha Darling vede un ruolo attivo in questi processi, infatti sostiene che «dobbiamo incoraggiare la scienza e l’innovazione: non si tratta di essere antiscientifiche ma di amare la scienza dotata di integrità morale.» Il loro compito è quello di «entrare in laboratorio e non fare una scienza identica a quella del passato, soprattutto per quel che riguarda i rischi: dobbiamo conquistare l’accesso all’interno della scienza e usarlo per porre nuove domande. Domande che riguardano i nostri valori e le nostre identità. Dobbiamo poter decidere chi vogliamo essere e quale direzione vogliamo prendere nel Ventunesimo secolo».
L’Unità, 9 luglio 2007