Paolo Colagrande: Kammerspiel

Messi come siamo messi a Piacenza, i libri di Paolo Colagrande sono una boccata d’aria fresca. Nell’ubertoso borgo padano come lo chiama lui, dove la cultura e l’ironia sono al di sotto degli standard minimi internazionali, il divertentissimo Colagrande ci da un motivo per sorridere. A noi piacentini soprattutto, che ci possiamo godere anche il suo spassoso dialetto tradotto in un italiano improbabile – perlomeno per chi non lo conosce – e le sue citazioni di personaggi e luoghi della umidissima “città golenale”.

Parmigiani e reggiani rideranno a denti stretti, che il Colagrande non nasconde un certo campanilismo da due lire, calcistico ma soprattutto culturale: ci si contendono per esempio i natali di Giuseppe Verdi, tra Sant’Agata nella bassa piacentina e Busseto in quella parmense. Non parliamo poi dei lombardi, che per loro son solo botte, seppur metaforiche.

Colagrande fa parte dell’ondata di scrittori emiliani come Paolo Nori o Daniele Benati, che ora si sono ritrovati a lavorare insieme alla rivista Laccalappiacani (edita da DeriveApprodi). Dopo aver vinto l’anno scorso il Campiello Opera Prima con Fìdeg, in questo Kammerspiel (Alet, 280 pagine, 14,50 euro) sceglie di usare gli stessi personaggi, la stessa ambientazione e quasi quasi la stessa storia. Il suo linguaggio gergale, intriso di dialetto, è la sua firma principale. Certo, a chi non è emiliano potrebbe risultare addirittura un po’ noioso, se si soffermasse solo su quello.

Eppure il libro si fa divorare: a Colagrande non mancano certo le qualità della scrittura, abbinate a una capacità comica impagabile. Ma la sua ricchezza maggiore è  il modo dal suo regò (confusione, in linguaggio vernacolare nordemiliana) inimitabile in cui frulla Freud, Verdi, Kafka, vicesindaci e bicchieri di vino, Voltaire, Ignazio da Loyola e Mina, cultura alta e vita di provincia frullate fa emergere un modo di affrontare la quotidianità prendendosi gioco dei mostri sacri e delle sventure della vita.

La trama, sempre che sia importante, è questa. Sotto il Po, a un passo dall’odiata Lombardia, si incrociano i destini di Bisi, Benozzi, Ferri, Salami e Piergiorgio. Tutte persone reali, come Piergiorgio – il cognome non si sa, ma non ci vuole molto a capire che si tratta di Bellocchio – e il Gnasso, l’oste che dirige l’omonima trattoria in via Campagna, luogo di riunione in cui gli eroi del libro si dedicano a coricare pistoni (bottiglioni di bianco) e a disquisire sul mondo. A loro si aggiunge una manica di personaggi più o meno riconoscibili, che cercano di inventarsi il modo di mantenersi al passo con le loro velleità culturali e politiche.

Per esempio, cercando di fondare l’ennesima fallimentare rivista letteraria. Oppure, come si accontenterebbe di fare il protagonista Bisi, mettendo le mani sulla pagina culturale del giornale locale, tiranneggiata dalla caporedattrice Alda. Che per riuscire a cavarne i trenta euro di un articolo e pagare le rate della banca, Bisi deve farsi fregare da colleghi rampanti e recensire a nome loro il Nabucco, edizione speciale per il bicentenario verdiano, fingendosi assessore per entrare gratis a teatro, mentre l’amico Joe Martini si spaccia per vicepreside delle medie del quartiere Infrangibile.

Il melodramma, ecco qualcosa che chi vuole partecipare alla cultura piacentina non deve mai disdegnare, pena l’esclusione dal consesso civile. Anche se – ahime – il nostro tenore più famoso, Gianni Poggi, reduce dalla Callas il Bolšoj e il Metropolitan terminò la carriera cantando Addiooo vessillo trionfàl all’osteria in cambio di un giro di bianco. E un melodramma è la vita di Bisi, tra i debiti, il giornale che non lo fa più scrivere, i colleghi che gli rubano il lavoro e gli amici che di certo non lo aiutano a sviluppare le sue capacità critico-letterarie.

Sfigato giornalista di provincia, tra lo stipendio della moglie e le sue fatture al giornale, mettere insieme il pranzo con la cena non è mica semplice, soprattutto se ci si mettono le multe non pagate, l’agenzia delle entrate che lo considera incongruo e incoerente e il bancomat che si ostina a dirgli che la cifra da lui richiesta è troppo alta, fossero anche zero euro. Però Bisi non si arrende e tira avanti, testardo e sordo alle avvisaglie del destino e alle pugnalate degli amici, e a Nabucco che dice “adesso sì caro il mio Zaccaria che son cazzi, mio furor non più costretto, fa’ de’ vinti atroce scempio, saccheggiate ardete il tempio, fia delitto la pietà”. E ha ragione, perché prima o poi le cose dovranno mettersi per il meglio. Che poi, peggio di così non si poteva davvero andare.

Queer, 6 luglio 2008