Geert Lovink: La googlizzazione delle nostre vite

Dal Sole 24 ore/Nova di ieri, copincollo questo pezzo di Geert Lovink, autore di Zero Comments (Bruno Mondadori, 184 pagine, 14 euro). Lovink era ieri all’Università Bicocca di Milano all’interno del convegno Tech it Easy.

Society of the Query: The Googlization of our Lives. A Tribute to Joseph Weizenbaum

«Uno spettro insegue le elite intellettuali del mondo: l’eccesso di informazione. Le persone normali hanno dirottato le risorse strategiche e stanno intasando i canali mediatici, che una volta erano attentamente sorvegliati. Prima di internet, i mandarini si cullavano nell’idea di poter separare le “chiacchiere” dalla “conoscenza”, ma dopo la nascita dei motori di ricerca non è più possibile distinguere tra idee patrizie e gossip plebeo. La distinzione tra alto e basso e il loro rimescolamento in occasione del carnevale appartengono a tempi passati e non abbiamo più motivo di preoccuparcene, perchè oggi l’allarme è causato da un fenomeno completamente nuovo: i motori di ricerca scelgono in base alla popolarità, non alla Verità.

La ricerca è il codice tecno-culturale che governa la vita contemporanea. L’incredibile aumento di informazione accessibile ci ha legato strettamente agli strumenti di ricerca: online cerchiamo numeri di telefono, indirizzi, orari di apertura, il nome di una persona, i dettagli di un volo, gli affari migliori, e definiamo l’ammasso crescente di materia grigia “data trash”. Presto quando faremo una ricerca non faremo che perderci. Non sono soltanto le vecchie gerarchie della comunicazione a essere implose, ma la comunicazione stessa si è trasformata in un assalto ai cervelli. Il rumore pop è cresciuto a livelli insostenibili, e inoltre non possiamo più sopportare ulteriori richieste dei colleghi. Anche gli auguri da parte di famiglia e amici sono diventati corvée in cui si è obbligati a rispondere. Ciò che più preoccupa le classi colte è che la chiacchiera è entrata in quello che sinora era stato il dominio protetto della scienza e della filosofia, quando invece dovrebbero essere più preoccupate di capire chi sta prendendo il controllo di una rete di calcolo sempre più centralizzata.

Se gli amministratori di oggi, caratterizzati da nobile semplicità e da quieta grandeur, non riescono a esprimerlo, dovremmo farlo al posto loro: sta crescendo lo scontento nei confronti di Google e del modo in cui internet organizza la ricerca di informazioni. L’establishment scientifico ha perso il controllo su uno dei suoi progetti di ricerca più cruciali: la progettazione e la proprietà delle reti informatiche, che oggi sono usate da miliardi di persone. Com’è possibile che così tante persone siano diventate tanto dipendenti da un singolo motore di ricerca? Perché stiamo ripetendo la saga di Microsoft? Sembra noioso lamentarsi di un monopolio in via di costruzione quando l’utente medio di internet ha una tale moltitudine di strumenti a disposizione per distribuire il potere. Un modo per superare questa impasse sarebbe ridefinire la “chiacchiera” di Heidegger. Invece di lamentarsi e sognare una tranquilla vita online e misure radicali per filtrare il rumore, è ora di scontrarsi con le forme più triviali di “esser-ci” di blog, messaggi di testo e videogiochi. Gli intellettuali non dovrebbero più dipingere gli utenti di internet come dilettanti di poca importanza, tagliati fuori dal mondo. In gioco c’è una questione più grande, che richiede di avventurarsi nella politica della vita informatica. È ora di rivolgersi all’emergere di un nuovo tipo di corporation che sta rapidamente trascendendo internet: Google.

Il World Wide Web, che avrebbe dovuto realizzare la biblioteca infinita descritta da Borges nel racconto La biblioteca di Babele (1941), secondo molti dei suoi critici non è altro che una variazione sul tema del Grande fratello di Orwell (1948). Il dittatore, in questo caso, non è un mostro del male ma un gruppo di giovani cool il cui slogan di responsabilità aziendale è “Non essere cattivo”. Guidato da una generazione molto più vecchia e ricca di esperienza fatta di guru delle tecnologie dell’informazione (Eric Schmidt), pionieri di internet (Vint Cerf) ed economisti (Hal Varian), Google si è espanso così rapidamente e in una tale varietà di campi che virtualmente nessun critico, accademico o giornalista economico è stato capace di seguire la portata e la velocità dei suoi sviluppi degli ultimi anni. Nuove applicazioni e servizi si accumulano con regolarità crescente come regali di Natale indesiderati. Sommate Gmail, il servizio gratuito di email di Google, la piattaforma di condivisione di video YouTube, il social network Orkut, GoogleMaps e GoogleEarth, la principale fonte di introiti AdWords, con gli annunci Pay-Per-Click, le applicazioni office come Calendar, Talks e Docs. Google non compete solo con Microsoft e Yahoo, ma anche con le imprese dell’intrattenimento, le biblioteche pubbliche (grazie al suo massiccio programma di scannerizzazione di libri) e addirittura con le compagnie telefoniche. Che ci crediate o no, il Google Phone è in dirittura d’arrivo.

Di recente ho sentito una componente della mia famiglia meno smanettona di me dire che aveva sentito dire che Google era molto migliore e facile da usare di Internet. Suonava buffo, ma aveva ragione. Google non è diventata soltanto la rete migliore, ma sta conquistando compiti software dal vostro computer in modo che possiate accedere ai dati da qualsiasi terminale o aggeggio portatile. Il MacBook Air di Apple è un’altra indicazione della migrazione dei dati verso bunker di stoccaggio controllati da privati. La sicurezza e la privacy dell’informazione stanno diventando rapidamente la nuova economia e tecnologia del controllo. E la maggioranza degli utenti, e ovviamente delle imprese, stanno felicemente cedendo il potere di autogestire le loro risorse informazionali.

Il mio interesse per i motori di ricerca è aumentato leggendo un libro di interviste al professore del MIT e critico informatico Joseph Weizenbaum, conosciuto per il suo programma di terapia psicologica automatica ELIZA, del 1966, e per il suo libro Computer Power and Human Reason, del 1976. La critica di Weizenbaum a Internet è di tipo generale: evita di entrare nello specifico, e questo è apprezzabile. Le sue critiche non sono nuove per chi conosce il suo lavoro: internet è un gran mucchio di spazzatura, un mass media costituito per il 95% da non-senso, e come per la televisione, la direzione presa dal Web è inevitabile. La cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è trasformata in un flusso di disinformazione, e il motivo principale è l’assenza di un editore o di principi editoriali. Eppure il libro non si occupa dei motivi per cui questo principio cruciale dei media non sia stato incorporato nella rete dalla prima generazione di programmatori, di cui Weizenbaum era un membro importante. Probabilmente la risposta sta nell’uso iniziale del computer come calcolatore.

I tecno-deterministi di Sophienstrasse a Berlino (sede della Università Humboldt, ndr) e di qualsiasi altro luogo insistono nel dire che il calcolo matematico resta la vera essenza del computer. Il (mis)uso dei computer a scopi mediatici non era stato previsto dai matematici, e non bisognerebbe dare a chi progettò i primi computer la colpa delle goffe interfacce e sistemi di gestione dell’informazione che usiamo oggi. Si trattava di una macchina progettata per scopi bellici, e cambiare gli scopi del calcolatore digitale per farlo diventare uno strumento umano universale al servizio del nostro ricco e variegato bisogno di informazione e comunicazione sarà un percorso lungo e difficile.

Weizenbaum ci mette in guardia rispetto all’uso acritico della parola “informazione”. “I segnali all’interno di un computer non sono informazione. Non sono altro che segnali. C’è un solo modo di trasformare i segnali in informazione, cioè l’interpretazione”, e per questo dipendiamo dal lavoro del cervello umano. Il problema di Internet, secondo Weizenbaum, è che ci invita a vederlo come se fosse l’oracolo di Delfi: la rete fornirà la risposta a tutte le nostre domande e ai nostri problemi. Ma Internet non è un distributore automatico in cui infili una moneta e ottieni ciò che vuoi. La questione chiave è l’acquisizione di un’educazione che permetta di formulare la domanda giusta. Per questo c’è bisogno di educazione e expertise. Standard educativi più elevati non si raggiungono semplicemente dando la possibilità di pubblicare online.

La sola comunicazione non ci darà un sapere utile e sostenibile. Invece di Google e Wikipedia abbiamo bisogno della “capacità di valutare e pensare criticamente”. Weizenbaum lo spiega facendo l’esempio della differenza tra udire e ascoltare. Come potete aspettarvi, il cosiddetto Web 3.0 viene annunciato come la risposta tecnocratica alla critica di Weizenbaum. Al posto degli algoritmi di Google, basati su parole chiave che forniscono un input basato sul ranking, presto potremo fare domande alla prossima generazione di motori di ricerca in “linguaggio naturale”, per esempio Powerset.

iamo nell’era del ritrovamento di informazione sul Web. Se il paradigma di Google si è basato su analisi dei link e ranking delle pagine, la prossima generazione di motori di ricerca diventerà visuale, per esempio, e comincerà a indicizzare le immagini del mondo, anche se non si baserà sui tag aggiunti dagli utenti ma sulla “qualità” delle immagini stesse. Benvenuti alla Gerarchizzazione del Reale. Dalla nascita dei motori di ricerca, negli anni Novanta, viviamo nella “Società della query”, che come dice Weizenbaum non è troppo diversa dalla Società dello Spettacolo di Guy Debord. Alla fine degli anni Sessanta l’analisi situazionista si fondava sulla nascita dell’industria del cinema, della televisione e della pubblicità. La differenza principale di oggi è che ci viene richiesto esplicitamente di interagire. Non siamo più una massa anonima di consumatori passivi, ma “attori distribuiti” presenti in una moltitudine di canali.

La critica di Debord alla commercializzazione non è più rivoluzionaria: il piacere del consumismo è cosi diffuso da aver raggiunto lo status di diritto umano universale. Tutti noi amiamo i beni e i brand, e ci crogioliamo nel glamour che la classe globale delle celebrità mette in scena per noi. Non esiste movimento sociale o pratica culturale, per quanto radicale, che riesca a sfuggire alla logica mercantile. Nessuno ha ancora escogitato un modo per vivere nell’era del post-spettacolo. Le preoccupazioni si sono concentrate sulla privacy, o su quel che ne è rimasto, ma la capacità del capitalismo di assorbire i suoi avversari è diventata così routinaria da aver reso quasi impossibile spiegare perché abbiamo ancora bisogno di pensiero critico – in questo caso su Internet – eccetto per il fatto che tutte le nostre conversazioni telefoniche private e il nostro traffico internet diventa disponibile pubblicamente.

E anche in quel caso è difficile sostenere le critiche quando la disputa assume la forma di lamentela organizzata da un’associazione di consumatori. Pensate a questa “democrazia degli azionisti” in azione. Solo così la questione sensibile della privacy diventerà il catalizzatore per una coscienza piu diffusa nei confronti degli interessi delle aziende, ma i partecipanti verranno separati attentamente. L’ingresso nella massa degli azionisti è riservato come minimo alla classe media. E ciò non fa che amplificare il bisogno di un dominio pubblico vitale e ricco, nel quale né la sorveglianza statale né gli interessi di mercato possano dire la loro.

Già nel 2005 il presidente della Biliothèque National francese, Jean-Noël Jeanneney, ha pubblicato un libretto in cui metteva in guardia contro la pretesa di Google di “organizzare l’informazione del mondo”. Google e il mito della conoscenza universale resta uno dei pochi documenti a sfidare apertamente l’egemonia incontestata di Google. Anche se di per se si tratta di un argomento legittimo, il problema ora non è il fatto che Google voglia costruire e amministrare un archivio online. Google soffre di obesità di dati ed è indifferente alle richieste di conservarli accuratamente. Chiedere consapevolezza culturale sarebbe ingenuo. Il primo obiettivo di questa impresa cinica è monitorare il comportamento dei consumatori per vendere dati di traffico e profili a terze parti interessate.

Ogni settimana Google lancia una nuova iniziativa. Anche per gli interni piu informati è quasi impossibile stare al passo, e tantomeno di svelare un progetto pilota. Milioni di utenti di internet, volenti o nolentti, stanno partecipando a questo processo fornendo gratuitamente i loro profili e la loro attenzione, cioè la moneta corrente della rete, a queste aziende. Qualche settimana fa Google ha brevettato una tecnologia che aumenterà la sua capacità di “leggere l’utente”. l’intenzione è decifrare a quali parti della pagina e a quali argomenti l’utente è interessato, basandosi sul suo comportamento dopo che è arrivato a una pagina. Questo è solo un esempio di una delle tante tecniche analitiche che questa media company sta sviluppando per studiare e sfruttare commercialmente il comportamento dell’utente.

Non sorprende che i critici piu feroci di Google siano nordamericani. Sinora l’Europa ha investito sorprendentemente poche risorse nella comprensione e nella mappatura della cultura dei new media. Tutt’al piu, la UE adotta precocemente standard tecnici e prodotti sviluppati al suo esterno. Ma nella ricerca sui new media ciò che conta è la supremazia teorica: la ricerca tecnologica da sola non basta, non importa quanti soldi verranno investiti in futuro dalla UE nella ricerca su Internet. Finché ci sarà un gap tra cultura dei new media e grandi istituzioni politiche, private e culturali, una cultura tecnologica vigorosa non nascerà. In breve, dovremmo smetterla di considerare l’opera e le belle arti come forme di compensazione per l’insopportabile leggerezza del cyberspazio.

Dobbiamo chiederci perché i critici migliori e piu radicali di Internet sono statunitensi. Non possiamo giustificarlo dicendo che sono piu informati. I due esempi che faccio, seguendo le orme di Weizenbaum, sono Nicholas Carr e Siva Vaidhyanathan. Carr viene dall’industria (Harvard Business Review) ed è cresciuto come il perfetto critico insider. Il suo ultimo libro, The Big Switch, descrive la strategia di Google per accentrare l’infrastruttura di Internet , e quindi controllarla, per mezzo dei suoi data-centre. I computer stanno diventando piu piccoli, economici e veloci, e questa economia di scala rende possibile l’outsourcing dello storaggio dati e delle applicazioni a costi bassi o inesistenti. Il business si sta spostando dai dipartimenti interni di information technology ai servizi di rete. In questo c’è una torsione ironica: generazioni di guru modaioli delle IT scherzavano sulla previsione di Thomas Watson dell’IBM (secondo cui al mondo c’era bisogno solo di cinque computer), e ora il trend è proprio quello. Invece di decentralizzarsi ulteriormente, Internet si è concentrato nelle mani di pochi data-centre estremamente energivori. La specialità di Carr è osservare la tecnologia in modo amorale, ignorando l’ingordigia della classe dotcom-diventata-web2.0. Il progetto di Siva Vaidhyanathan, The Googlization of Everything (La googlizzazione di tutto), ha l’ambizione di sintetizzare le ricerche critiche su Google in un libro, che dovrebbe uscire alla fine del 2009. Uno dei suoi blog raccoglie il materiale grezzo con il quale sta preparando il volume.

Per ora le nostre ossessioni si concentreranno sulle risposte che non soddisfano le nostre richieste, e non sul problema sottostante, cioè la bassa qualità della nostra educazione e il calo della capacità di pensare in modo critico. Sono curioso di sapere se le generazioni future incarneranno – o forse dovremmo dire progetteranno – le “isole della ragione” di Weizenbaum. Dobbiamo riappropriarci del tempo. Al momento la “cultura del tempo” non ci permette di girovagare come flaneur. Tutta l’informazione, qualsiasi oggetto o esperienza devono essere istantaneamente a portata di mano. Il nostro stato di default tecno-culturale è l’intolleranza temporale. Le nostre macchine registrano la ridondanza del software con impazienza crescente, chiedendoci di installare l’ultimo update. E siamo tutti troppo disponibili, mossi dalla paura di essere lenti.

Gli esperti di usabilità misurano le frazioni di secondo che impieghiamo per decidere se l’informazione che appare sullo schermo è quella che stavamo cercando. Se non siamo soddisfatti, clicchiamo ancora. La serendipità invece richiede un sacco di tempo. Possiamo inneggiare alla casualità, ma è difficile che siamo noi a praticare questa virtù. Se con le nostre ricerche non riusciamo più a imbatterci in isole di ragione, potremmo cercare di costruirle da noi. Con Lev Manovich e altri colleghi sto sostenendo che dobbiamo inventare nuovi modi di interagire con l’informazione, nuovi modi per rappresentarla e per darvi un significato. In che modo artisti, designer e architetti stanno rispondendo a queste sfide? Smettete di cercare. Cominciate a fare domande. Invece di cercare di difenderci dall’eccesso di informazione, non possiamo affrontare la situazione con creatività, come opportunità per inventare nuove formule, più adatte al nostro mondo così ricco di informazione?».

Nòva – Il sole 24 ore – 6 novembre 2008

Testo raccolto da Mauro Garofalo – Traduzione di Alessandro Delfanti