Brevetti sui geni addio? Intervista a Debra Greenfield

L’anno scorso la Aclu (American Civil Liberties Union), una delle maggiori associazioni per i diritti civili degli Stati Uniti, è entrata nel dibattito sui brevetti sui geni. E ha denunciato il potente Ufficio brevetti americano, insieme ai detentori dei brevetti sui geni Brca1 e 2, geni correlati al cancro alla mammella: l’azienda privata Myriad Genetics, che produce i test per Brca, e l’Università dello Utah. Aclu, insieme a Public Patent Foundation e alcune associazioni che si dedicano alla salute delle donne, ha vinto la prima sentenza.

Il caso sembra destinato ad arrivare alla Corte suprema e a cambiare le leggi che da trent’anni a questa parte hanno permesso di brevettare circa il 20% dell’intero genoma umano. Recentemente il Dipartimento di giustizia Usa si è pronunciato a favore della revisione della legislazione sui brevetti, dando maggiori speranze a Aclu e i suoi alleati. Debra Greenfield, avvocato, giurista e professore di bioetica presso la Università della California a Los Angeles fa parte del pool di consulenti chiamati a dare un parere al tribunale che sta giudicando il caso.

Perché la Aclu ha deciso di entrare nel dibattito sui brevetti sui geni?
Serviva una componente istituzionale per intentare una causa così importante, ma di solito si tratta di ricercatori universitari che sono comunque coinvolti in meccanismi di brevettazione portati avanti dalle loro università. Per questo si è cercato di coinvolgere la Aclu. Ed è stato molto difficile perché loro non si sono mai occupati di questi casi, anche se ovviamente hanno fatto molte cause relative al copyright per proteggere il diritto di espressione contenuto nel Primo emendamento. Lo scopo generale dei brevetti non è mai stato messo in discussione, nonostante sia diventato sempre più ampio non solo nella ricerca genetica ma anche per le tecnologie dell’informazione.

Oggi puoi praticamente brevettare tutto: se qualcosa è utile puoi brevettarlo anche se non è legato a una particolare macchina. Così alla Aclu è diventato chiaro che in gioco c’è un problema legato al Primo emendamento. Il problema dell’accesso all’informazione ha implicazioni per un’associazione che si occupa di difendere i diritti civili, e allo stesso tempo alcuni processi relativi alle tecnologie dell’informazione stavano arrivando alla Corte suprema. Questa combinazione di fattori ha spinto l’associazione a entrare in gioco.

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John Wilbanks: clima e proprietà intellettuale

La scienza è un bene comune? È quello che pensano a Science Commons, una costola di Creative Commons, l’associazione americana che si occupa di proprietà intellettuale e diffusione della cultura e dei saperi. John Wilbanks, direttore di Science Commons, lavora da anni a pensare e organizzare modelli di innovazione aperti, in cui la partecipazione sia libera e i risultati accessibili a tutti, e alla scrittura di licenze aperte, alternative a brevetti e copyright. Insomma la scienza come commons, come bene comune. Gli abbiamo chiesto un parere sul clima e sul vertice di Copenaghen proprio dal punto di vista dei brevetti e dell’accesso ai saperi e alle tecnologie.


Perche le tecnologie verdi dovrebbero essere considerate un bene comune?

Il fatto è che avremo bisogno che molte di queste tecnologie interagiscano, per raggiungere gli obiettivi di riduzione della CO2, efficienza energetica, riduzione dei rifiuti, e progettazione di nuovi materiali. Ci sono campi diversi su cui giocano attori diversi. Se tutte le tecnologie più importanti devono essere comprate a caro prezzo, sarà molto difficile usarle insieme.
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Clima e brevetti a Copenaghen

Tutti concordano su una cosa: per affrontare il cambiamento climatico non bastano soluzioni tecnologiche innovative. Bisogna anche che queste si diffondano il più possibile ed entrino a far parte di un nuovo modello produttivo a livello mondiale. La pressione sui paesi più poveri perché facciano la loro parte per ridurre le emissioni aumenta. Ma a loro serve accesso a basso costo alle tecnologie a bassa emissioni di anidride carbonica. Inoltre, i monopoli di conoscenza impediscono ai produttori locali di adattare le tecnologie ai bisogni locali: un’enorme spreco per un settore in cui la diffusione delle tecnologie potrebbe essere capillare. Il problema è che di mezzo ci sono i brevetti, e al vertice COP15 di Copenaghen ne parleranno i delegati di 190 paesi.

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Carta per l’innovazione, la creatività e l’accesso alla conoscenza

Dal Forum della cultura libera di Barcellona, che si è tenuto la settimana scorsa, esce la Carta per l’innovazione, la creatività e l’accesso alla conoscenza, per contrastare l’attività delle lobby dell’industria culturale e la tendenza a privatizzare e recintare cultura e conoscenza. Scritta collettivamente da alcune decine di persone e organizzazioni internazionali che si occupano di accesso ai saperi, mi sembra un’ottimo documento.

E presto verrà presentata a istituzioni politiche e
governi, incluse la WIPO (Organizzazione Mondiale per la
Proprietà Intellettuale), l’Amministrazione Obama, la Commissione
europea e molti governi nazionali. Alcune di queste organizzazioni
erano presenti al Forum, per esempio rappresentanti della Commissione europea e osservatori ufficiali del
Ministero della cultura brasiliano. La campagna farà appello al governo
spagnolo, che tra poco assumerà la presidenza dell’Unione
europea. Niente, in confronto al fatto che la Carta sarà consegnata personalmente a "La
Infanta Cristina
", la figlia del re di Spagna.

User-led science

Su JCOM abbiamo lanciato una call for articles. Si cercano contributi sulla scienza dal basso ai tempi della rete: si può fare? Funziona? Il web allarga la partecipazione? E chi si appropria della conoscenza prodotta dagli utenti di internet? Vorremmo evitare di fare un’apologia della democrazia online e della produzione p2p, per cui sono ben accetti contributi critici e analisi che scavano un po’ sotto alla crosta modaiola del web 2.0. Ecco la call:

User-led Science – A special issue of JCOM

Science is increasingly being produced, discussed and deliberated with cooperative tools by web users and without the istitutionalized presence of scientists. "Popular science" or "Citizen science" are two of the traditional ways of defining science grassroots produced outside the walls of laboratories. But the internet has changed the way of collecting and organising the knowledge produced by people – peers – who do not belong to the established scientific community. In this issue we want to discuss:

– How web tools are changing and widening this way of participating in the production of scientific knowledge. Do this increase in participation consist in a real shift towards democratizing science or on the contrary is merely a rhetoric which do not affect the asymmetrical relationships between citizens and institutions?

– The ways in which both academic and private scientific institutions are appropriating this knowledge and its value. Do we need a new model to understand these ways of production and appropriation? Are they part of a deeper change in productive paradigms?

We would like to collect both theoretical contributions and research articles which address for example case studies in social media and science, peer production, the role of private firms in exploiting web arenas to collect scientific/medical data from their costumers, online social movements challenging communication incumbents, web tools for development.

Interested authors should submit an extended abstract of no more than 500 words (in English) to the issue editor by May 15, 2009. We will select three to five papers for inclusion in this special issue. Abstracts should be sent to the JCOM’s editorial office (jcom-eo@jcom.sissa.it).

Sissa: brevetti precari

Il nuovo Regolamento sulla proprietà intellettuale della Scuola internazionale superiore di studi avanzati, appena approvato dalla Sissa di Trieste, dove lavoro, stabilisce le norme sui brevetti per il personale della scuola. Naturalmente la Sissa "favorisce la brevettazione e la valorizzazione economica dei risultati delle ricerche" che risultano in invenzioni brevettabili.

Con un buffo distinguo: se sei un "inventore-dipendente" (cioè un professore garantito che guadagna un ottimo stipendio) hai l’esclusiva sui diritti derivanti dall’invenzione, e devi versare alla Sissa il 40% dei proventi. Il restante 60% è tuo. Se invece sei un "inventore-soggetto non strutturato" (cioè un dottorando, un contrattista, insomma un precario qualunque) i diritti patrimoniali restano alla Sissa, che ti darà il 50% dei proventi. Il 10% di differenza se lo tiene la Sissa, insieme al diritto di vendere il brevetto e farne ciò che vuole. Il precario si consola con l’inalienabile diritto a essere riconosciuto come autore dell’invenzione, che però non si mangia.

Un chiarimento: non so quanto influiscano le spese di registrazione, che naturalmente sono a carico del titolare del brevetto, e se questa suddivisione sia comune nelle università italiane. Qualcuno me lo spiega? Intanto mi consolo sapendo che i ricercatori precari, come scritto nella proposta di autoriforma scritta dall’Onda nel novembre scorso, ritengono "essenziale lo sviluppo di forme non commerciali della loro tutela (GPL/Creative commons) in contrapposizione al brevetto".

Qui il testo del regolamento Sissa

Gesù dove pubblicherebbe? Su PLoS One

Almeno lo sostiene la maglietta di Michael Eisen, il genetista nerd di Berkeley fondatore di Public Library of Science e della sua rivista più innovativa, PLoS One, in cui la peer review è aperta a tutta la comunità scientifica online. La maglietta la porta anche un numero di Genome Technology, che mette in copertina i tre padri di PLoS e dedica ben sei pagine a raccontare le magnifiche sorti e progressive dell’open access nella genomica e nella bioinformatica.

Qui potete scaricare il pdf dell’articolo "Ready or not, here comes open access".

Il dilemma del pirata

Il dilemma del pirata è quello che dovremmo vivere ogni volta che scarichiamo una canzone o un film piratato da Internet. Stiamo rubando il lavoro di altre persone , stiamo danneggiando l’economia e soprattutto stiamo mettendo in pericolo la cultura, condannandola a morte lenta? Che facciamo, smettiamo di scaricare? Chiedetelo a Matt Mason, un giornalista musicale ed ex dj di radio pirata di Londra. Matt ha scritto The Pirate’s Dilemma. How Youth Culture Is Reinventing Capitalism.

Secondo Matt, la pirateria non è soltanto divertente, economica e comoda. Altro che fare danni: la pirateria sarebbe un motore della circolazione di cultura, dell’innovazione e niente meno che del capitalismo. Insomma, la proprietà è un furto oppure il furto aumenta la proprietà? Non è una domanda stupida, se pensate che Matt propone il “capitalismo punk” (molti punk si rivolteranno davanti a questo ossimoro): una volta tre ragazzini che si annoiavano potevano mettere su un gruppo punk e autogestire la propria musica. Oggi gli stessi tre amici, grazie alla rete e ai computer potrebbero dare vita a un’impresa del web e fare i soldi partendo da zero e attingendo a piene mani alla ricchezza di informazione che si trova su internet, alla faccia di brevetti e copyright.

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A Barcelona la scienza aperta

Il 16 e il 17 luglio, prima dell’inizio di ESOF 2008 (Euroscience Open Forum) si terrà un evento satellite organizzato da Science Commons e dedicato alla scienza aperta e all’uso della rete. Si discuterà di come allargare l’accesso ai dati scientifici e l’uso degli strumenti necessari per gestirli, cioè le risorse informatiche. Secondo il programma del workshop, in quei giorni ci si dedicherà a

"discutere e definire i principi di base della scienza aperta, inclusa l’identificazione delle caratteristiche chiave per riconoscere un sistema come sistema di scienza aperta. Il nostro obiettivo è concludere il seminario con un set di principi per la scienza aperta, che possano guidare efficacemente lo sviluppo di un’infrastruttura collaborativa globale per la condivisione della conoscenza che velocizzi le scoperte e salvi più vite".

Mica poco. Qualcuno sarà a Barcelona in quei giorni?