Legge chi paga o paga chi legge?

Chi ha detto che l’open access è una mania da smanettoni libertari? Negli Usa il «Federal Research Public Access Act» lo hanno scritto il senatore repubblicano John Cornyn e Joseph Lieberman, il democratico più a destra che ci sia, recentemente sconfitto alle primarie nel Connecticut. In fondo la questione sollevata è semplice: perché i risultati delle ricerche degli enti pubblici, cioè quelle pagate da tutti i cittadini, non dovrebbero essere liberamente accessibili a tutti, ma solo a chi si abbona alle costose riviste scientifiche? I due senatori, insomma, vorrebbero obbligare i grandi enti di ricerca pubblici a mettere tutti gli articoli scientifici su archivi «open» dopo sei mesi dalla pubblicazione su rivista, rendendoli così consultabili gratuitamente a chiunque disponga di una connessione internet.

Niente di rivoluzionario, dato che i primi sei mesi sono il periodo di maggior interesse scientifico di una pubblicazione, e visto che nell’ultimo anno sia il Research Council britannico sia la Commissione Europea si sono espressi a favore della pubblicazione open access delle ricerche finanziate con denaro pubblico.

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Un wiki per la scuola globale

Insegnanti di tutto il mondo unitevi! Se vi chiedete come far entrare nella scuola le potenzialità del cosiddetto Web 2.0, cioè di quelle applicazioni che permettono agli utenti della rete di non essere consumatori passivi ma di creare i propri contenuti in una forma sociale e condivisa, il Global Text Project è quello che fa per voi. Soprattutto se non siete insegnanti ma studenti in coda in libreria per l’acquisto dei costosissimi libri di testo scolastici.

Il progetto parte dall’Università della Georgia negli Stati Uniti, ma si propone di creare una rete in tutto il mondo per rendere disponibili testi a costo zero per gli studenti dei Paesi in via di sviluppo, che spesso non possono permettersi i libri necessari per l’educazione superiore. Non si tratterà di semplici libri e nemmeno soltanto di e-book, ma di wiki, cioè testi aperti alle modifiche che la stessa comunità scolastica vorrà apportarvi per migliorarli.

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Do it yourself wi-fi buddista :-)

«Noi buddisti crediamo nella filosofia dell’interdipendenza. Niente è indipendente, tutto è collegato e interdipendente. Dobbiamo collegarci con gli altri, e per collegarci abbiamo bisogno della comunicazione. E per la comunicazione ci sono strumenti incredibili, e ciò è davvero buono». Da qualche tempo a questa parte diverse città si stanno dotando di una rete wireless municipale, per garantire l’accesso a internet a tutti gli abitanti. Gli esempi non mancano, e mentre Google sta dotando tutta l’area di Mountain View di segnale wi-fi gratuito, San Francisco ha già alcuni quartieri coperti dal segnale internet senza fili e Parigi vuole dare a tutta la città una rete wi-fi entro la fine del 2007.

Ma le parole di Samdhong Rinpoche, Primo ministro del Tibet, si riferiscono alla rete di Dharamsala, la città del nord dell’India che è la capitale del governo tibetano in esilio e la residenza del Dalai Lama. Lì si naviga con le trenta antenne del Dharamsala Community Wireless Mesh Network, un esperimento di rete wi-fi comunitaria che copre sessanta chilometri di raggio e duemila computer, mettendo a disposizione dei suoi membri connessione internet, possibilità di scambiarsi file e di telefonare tramite un sistema VoIP.

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Addio, Murray

Il Burlington Free Press è lo storico quotidiano di Burlington nel Vermont, uno degli Stati più selvaggi dell’Unione americana. Sdraiato proprio sulla strada tra New York e il Quebéc, nei boschi che ricoprono le dolcissime Green Mountains, questo piccolo territorio ha solo mezzo milione di abitanti, forse più vacche che cittadini, e una tradizione democratica, municipalista e liberale proverbiali.

Il viaggio da Burlington a Portland, nel Maine, dura quasi quattro ore di highway e non ci metto molto ad arrivare alla pagina degli obituaries del BFP. Lo scopro così, ieri (il 30 luglio 2006, ndr) a Burlington è morto Murray Bookchin.

Non potrò andare ai suoi funerali, sto lasciando il Vermont e non so quando ci tornerò. Ma voglio comunque aggiungere un piccolo obituary ai tanti che verranno scritti per Bookchin: era nato a New York nel 1921, si era formato come marxista ma, giovanissimo, durante la guerra di Spagna si era avvicinato agli ideali libertari. Aveva poi dedicato gli ultimi cinquant’anni della sua vita a coniugare ecologismo e municipalismo, anarchia e lotta alla gerarchia in ogni sua forma. Il suo primo libro, Our synthetic environment, fu nel 1962 uno dei primissimi testi a porre l’attenzione sulla questione ecologica, pochi mesi prima del ben più noto Primavera silenziosa di Rachel Carson, la cui nuova edizione sfoggia la prestigiosa prefazione di Al Gore.

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Il meglio della coscienza visiva

Avete mai provato a camminare per strada, fare la spesa o viaggiare facendo caso a quanto del vostro tempo viene registrato da una telecamera di sorveglianza? E avete mai pensato alla mole enorme costituita dalla massiccia registrazione delle nostre comunicazioni, email e telefonate? È un flusso continuo di immagini e parole, una quantità di dati infinitamente più elevata della capacita umana di analizzarla. Il problema di come migliorare le nostre prestazioni visive e cognitive se lo è posto Darpa, l’agenzia di ricerca avanzata del Pentagono, puntando su quelle ricerche che cercano di integrare tre sistemi: hardware, software e wetware, come viene chiamato l’umido cervello umano che interagisce con i sistemi informatici.

Paul Sajda, bioingegnere del Laboratorio di Intelligent Imaging e Neural Computing della Columbia University di New York, sostiene che «il nostro sistema visivo è il miglior processore visuale che ci sia, stiamo soltanto cercando di accoppiarlo con le tecniche di visione computerizzata per rendere più efficiente la ricerca in grandi quantità di immagini». Sponsorizzato da Darpa, Sajda sta lavorando a C3Vision, letteralmente il «Sistema di visione accoppiata computer-corteccia»: una nuova interfaccia tra cervello e macchina che darà vita a un identificatore di immagini che operi più rapidamente della coscienza umana, combinando la velocità di calcolo del cervello umano e quella dei computer.

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Verso l’alta tecnocrazia

«La tecnologia non è un privilegio per i ricchi, ma uno strumento per i poveri». A Kuala Lumpur in Malaysia, il 19 e 20 giugno scorsi, è nata UnGaid, l’Alleanza globale delle Nazioni unite per le Information and Communication Technologies (Ict) e lo sviluppo. Si tratta di una nuova agenzia dell’Onu che lavorerà per cercare di colmare il digital divide, cioè la ciclopica differenza nel possesso di mezzi di comunicazione tra Nord e Sud del mondo.

Non solo internet, ma anche cellulari, ricevitori satellitari e tutti gli altri strumenti che ci fanno entrare nell’infosfera sono infinitamente meno accessibili nei Paesi poveri rispetto a quelli ricchi. È una differenza che ha effetti negativi proprio sullo sviluppo, mentre le aree ricche del pianeta si avvicinano all’estensione totale dell’uso della rete e aumenta la diffusione di tutti quei ‘giocattoli’ che ci garantiscono l’accesso alle informazioni e alla conoscenza. UnGaid sarà un forum di discussione aperto a tutti gli interessati, un network di esperienze decentrate che non si sostituirà alle istituzioni e alle reti sociali che combattono il digital divide, ma ne coordinerà il lavoro stimolando il dialogo sul ruolo delle Ict nello sviluppo economico e nella lotta alla povertà.

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Cyber terrorista è lo Stato!

Anche il Department of Homeland Security statunitense, nato sull’onda della guerra al terrorismo post-undici settembre, se la prende ogni tanto con i movimenti sociali. Nel febbraio scorso il Dhs ha iniziato i suoi wargames contro il terrorismo cibernetico: un’esercitazione anti-intrusione nei sistemi informatici che ha coinvolto un centinaio di organizzazioni non solo americane ma anche canadesi, britanniche e australiane.

Si trattava di coordinare la risposta a un attacco via computer, simulando le reazioni delle diverse strutture e le ripercussioni sul sistema dei trasporti o su quello dell’informazione, per esempio. Il Dipartimento per la sicurezza nazionale non aveva però svelato i particolari tecnici né «politici» dell’esercitazione. Così la sorpresa di scoprire i protagonisti della simulazione la dobbiamo a Cryptome, il sito di controinformazione che si diverte (a costo di essere costantemente nel mirino delle forze dell’ordine) a pubblicare documenti secretati dai governi, soprattutto quelli relativi a «libertà di espressione, privacy, crittografia, tecnologie, sicurezza nazionale, intelligence».

Cryptome ha reso pubblico un documento del Dhs dal quale veniamo a sapere, non senza sorridere, che l’importante simulazione di febbraio riguardava un attacco di «Freedom not bombs», un fantomatico movimento cyber terrorista il cui nome ha una somiglianza perlomeno sospetta con Food not bombs, l’organizzazione pacifista che distribuisce pasti vegani agli homeless.

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L’articolo scientifico alla prova del web

«Gli scienziati sono pronti per applicare il grande potere della rivoluzione di internet alla comunicazione scientifica, ma sono stati ostacolati dalla natura conservatrice dell’editoria scientifica». Lo dice Michael Eisen, biologo dell’Università della California di Berkeley e co-fondatore di Public Library of Science, l’organizzazione paladina dell’open access che dal 2003 pubblica diverse riviste specializzate ad accesso libero e gratuito per chiunque abbia a disposizione una connessione internet.

PLoS sta per tentare l’assalto al cielo dei due (costosi) colossi cartacei della scienza, Nature e Science, le più grandi riviste scientifiche del mondo. Entro l’anno lancerà sul web PLoS One, il suo nuovo giornale «generalista», aperto cioè a qualunque disciplina scientifica.

Ma non è tutto qui: oltre all’approccio open di cui PLoS è portabandiera, cioè la gratuità per tutti i lettori on line, la rivista avrà alcune caratteristiche nuove. O meglio, adattate da quelle che sono ormai le normali forme di lavoro nella rete e che, applicate all’editoria scientifica, acquistano un sapore rivoluzionario, e PLoS non esita a parlare di «Open access 2.0», parafrasando quel «Web 2.0» che dovrebbe definire la nuova organizzazione sociale della rete.

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Fame di giochi

Due videogame, entrambi gratuiti e scaricabili dalla rete, affrontano da posizioni diverse i problemi legati a cibo, agricoltura, ambiente e fame. Si tratta di usare il videogioco come mezzo di comunicazione, e Food Force e McVideogame sono due esempi di come si possano saltare i confini tra generi utilizzando linguaggi originali per parlare di temi serissimi in modo moderno ed efficace… continua Continue reading “Fame di giochi”

Nel laboratorio dei bioartisti

Critical Art Ensemble è un collettivo di cinque artisti di varie specializzazioni dedicato all’esplorazione delle intersezioni tra arte, tecnologia, politica radicale e teoria critica”. Si presenta così questo gruppo statunitense – tra i fondatori del movimento della bioarte – che del 1987 ha intrapreso un complesso percorso di confine per interrogarsi sulla tecnoscienza in una forma critica, senza trascurare l’interazione con il pubblico. L’obiettivo è puntato sulle forme di rappresentazione del vivente e della scienza che le biotecnologie hanno contribuito a creare e che, contemporaneamente, utilizzano a piene mani… continua

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