La scienza sull’Himalaya

Che scienza e che tecnologia si usano sulla vetta del mondo? Meglio aumentare il PIL o la felicità della popolazione? Come si conservano le immense ricchezze naturali di un’area che comprende poche piccole nazioni, come Bhutan o Nepal, ma che fornisce acqua a 1,3 miliardi di persone in India e Cina? Se lo è chiesto con un intero dossier SciDev, la rete che si occupa del legame tra scienza e sviluppo. Non solo per le caratteristiche geografiche ed ecologiche della regione, ma anche per la sua attenzione allo sviluppo di tecnologie «appropriate», sviluppate localmente e quindi attente alle esigenze dell’ambiente naturale e sociale.

È la messa in pratica delle idee espresse da Ernst Schumacher nel suo Piccolo è bello, il cui sottotitolo è Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa. Schumacher indicava tre caratteristiche delle tecnologie ecologiche e orizzontali: sono economiche e accessibili a tutti; possono essere applicate su piccola scala; e possono essere plasmate e adattate dalla creatività di chi le usa.

Proprio come le microturbine prodotte in modo semiartigianale a Kathmandu, che si stanno diffondendo in tutto il Nepal dando vita a una miriade di centrali idroelettriche gestite dai villaggi e adattate all’ambiente grazie ai saperi locali. Il risultato? Uno dei paesi con il potenziale idroelettrico pro capite più alto del mondo. E poi le 180.000 piccole centrali a biogas diffuse nelle fattorie più sperdute. Secondo SciDev insomma le tecnologie piccole, economiche e casalinghe «non appartengono più al regno del romanticismo New Age. Il Nepal ha mostrato che funzionano meglio di costosi interventi esterni, e che anche se il mondo se ne accorge lentamente, stanno migliorando la vita delle persone».

Già, la vita delle persone. Negli anni ottanta l’allora re del Bhutan, Jigme Singye Wangchuk, dichiarò che la felicità era più importante del PIL e si basava anche su conservazione dell’ambiente ed equità dello sviluppo socioeconomico, cui il progresso tecnologico deve adattarsi. Una dichiarazione forse populista (e un indice, la Felicità interna lorda, ben poco verificabile), ma il Bhutan ha riservato il 70 per cento del suo territorio alle foreste, immenso serbatoio di biodiversità, e a oggi resta uno dei pochi stati al mondo ad assorbire più anidride carbonica di quella che emette.

Ma richieste dello sviluppo, urbanizzazione e mutamenti climatici stanno chiedendo al piccolo paese una risposta meno ingenua. E così il Bhutan cerca di aiutare le comunità a rendersi indipendenti diffondendo tecnologie che non prevedano lo sfruttamento delle ricchezze delle sue foreste: per esempio cucine elettriche, alimentate da energia di produzione idroelettrica, a sostituire quelle a legna, o pannelli solari.

In un territorio come quello dell’Himalaya, anche la diffusione delle conoscenze ha un ruolo importante. L’uso sapiente delle tecnologie dell’informazione è prezioso: per esempio la radio, usata per diffondere quelle conoscenze sanitarie di base che hanno permesso al Nepal di dimezzare in pochi anni il suo tasso di mortalità infantile. Tanto prezioso che non stupisce che pochi giorni fa il Ramon Magsaysay Award (il Nobel asiatico) per la «Community leadership» sia stato assegnato a Mahabir Pun, un insegnante di un piccolo villaggio nepalese, per «la sua innovativa applicazione delle tecnologie wireless in Nepal, che ha portato il progresso in un villaggio, collegandolo al villaggio globale». Il Nepal Wireless Networking Project infatti ha portato Internet su sette computer alimentati da mini centrali idroelettriche in quattordici villaggi (alcuni a sette ore di cammino dalla strada più vicina, nessuna linea telefonica).

Da Dharamsala, la città del nord dell’India che è capitale del governo tibetano in esilio e residenza del Dalai Lama, rispondono le trenta antenne del Tibetan Technology Center, che ha installato una rete wi-fi comunitaria che copre sessanta chilometri di raggio e centinaia di computer, mettendo a disposizione dei suoi membri connessione Internet e possibilità di telefonare tramite un sistema VoIP «dei poveri», come lo chiamano loro stessi, cioè prodotto con tecnologie di scarto o a basso costo. Secondo Mahabir Pun «i sistemi di comunicazione sono importanti per lo sviluppo di una comunità o di una nazione», e quindi «tutti, nel mondo, hanno il diritto di usare queste tecnologie e beneficiarne. Per i paesi in via di sviluppo si tratta di un bisogno di base».

Il Manifesto, 30 agosto 2007