Ecco la versione estesa dell’intervista che io e Espanz
abbiamo fatto a Michel Bauwens, che esce oggi sul
manifesto in un paginone di Chip&Salsa tutto dedicato all’open
source. Se non vi basta, qui potete leggere il suo saggio The Political Economy of Peer Production. Potete anche scaricare l’mp3 con l’audio del suo intervento a Milano qualche settimana fa.
Molti sono alla ricerca di un nuovo paradigma economico e sociale che prenda il sopravvento nel 21mo secolo. Michel Bauwens lo ha individuato nel peer to peer. E non parliamo solo di sistemi per scambiarsi file su internet, ma di un modo di produzione non gerarchico, decentrato e tra pari che esca da internet e contamini tutta la società. Bauwens, che insegna alla Dhurakij Pundit University di Bangkok, con la P2P Foundation si occupa di raccogliere e sistematizzare tutte le esperienze di cooperazione libera, tra pari, dal basso, open source. E’ l’evangelista del peer to peer.
Cosa intendi per P2P?
Tutti ormai usano programmi di file sharing peer to peer per scaricare video o musica. Ma l’uso che faccio io del termine è piu ampio e più profondo. Fondamentalmente in quei programmi ogni computer del sistema agisce come un pari tra altri pari. Non c’è un computer centrale da cui scaricate un film. Per me la caratteristica principale dei sistemi P2P è proprio la possibilità che danno agli individui di entrare liberamente in relazione con gli altri e di agire insieme. Possiamo chiamarlo network distribuito e decentrato, in cui il potere è spezzettato e diviso tra tutti. Pensate a un’autostrada, costruita da qualcuno tramite una decisione dall’alto, e a un sentiero nel bosco, che è il risultato del passaggio di diverse persone. Il risultato è simile, ma il tipo di interazione tra le persone è completamente diverso. Internet può essere usato come un’infrastruttura orizzontale che permette alle persone di connettersi, creare media, condividere file, lavorare insieme: la rete abilita dinamiche P2P.
Come funzionano le comunità P2P?
Le comunità di produzione tra pari sono basate su dinamiche sociali particolari: se sei un programmatore di sofware libero o se scrivi su Wikipedia sei un volontario non pagato, ma sei spinto dalla tua passione e da una forte motivazione. Questo è il sogno delle imprese: lavoratori motivati. Be’, nel mondo P2P le persone non motivate sono automaticamente escluse, perché non hanno altri motivi per partecipare, e questo ne fa un ambiente straordinariamente produttivo. E poi nella produzione tra pari c’è un nuovo modo di guardare alle persone, che io chiamo equipotentiality. Invece di decidere un modo di produzione e poi assumere persone per portarlo a termine, devo disegnare un compito e dividerlo in pezzi più piccoli possibili. Poi serve un sistema che permetta alla gente di far coincidere le sue idee, le sue capacità, con i compiti da svolgere, proprio come fa Wikipedia. Il meccanismo è basato sull’autoselezione. Bisogna aprire al massimo la partecipazione e creare controlli di qualità di tipo comunitario, creando un sistema basato sull’inclusione e non sull’esclusione.
E’ così rivoluzionario?
Per me questo è un punto di svolta sociale nella nostra civiltà. Per semplificare lo scambio di informazioni e di beni abbiamo dato vita a società gerarchiche. Oggi le nuove infrastrutture tecnologiche permettono una coordinazione globale di piccoli gruppi. Quindi la novità è che possiamo creare artefatti sociali molto complessi, come Wikipedia o Linux, senza bisogno di un’organizzazione gerarchica in cui qualcuno dica agli altri cosa devono fare: una moltitudine di individui e gruppi si coordinano e controllano il loro lavoro. Un cambiamento in direzione di relazioni e strutture P2P. Credo che in questo ci sia un grande potenziale di liberazione che conduce verso alternative aperte, basate sui beni comuni e sulla partecipazione che sono legate al P2P, in cui le gerarchie sono flessibili e le strutture aperte alla partecipazione.
Quali processi sociali vi stanno alla base?
Parliamo di tre nuovi tipi di processi sociali che ora avvengono non su scala locale ma su scala globale. Il primo è la produzione tra pari, cioè la capacità di produrre valore comune. Il secondo è la governance P2P, cioè la capacità di gestire questi processi senza ricorrere a gerarchia e centralizzazione. Il terzo è la proprietà P2P, cioè la possibilità di proteggere i beni comuni e dei prodotti del lavoro comune dall’appropriazione privata. Se chiudo l’accesso a un bene dicendo che è mio e non più tuo, be’… in questo modo distruggo l’intera comunità P2P. Questo non significa che questi beni o informazioni non possano essere usate da un’azienda, per esempio, per mezzo di licenze come quelle che proteggono il software libero. Tutti possono usarlo purché non lo privatizzino e rilascino i loro prodotti nel dominio pubblico.
Non è un orizzonte così semplice da intravedere
Infatti dobbiamo aprire la nostra immaginazione politica e sociale: siamo abituati a pensare all’alternativa tra stato e mercato. Da una parte privatizzazione e liberismo, dall’altra l’intervento dei governi per salvare le banche, per esempio. La produzione P2P ci invita a guardare a un terzo modo di trovare soluzioni politiche, economiche o sociali che siano organizzate sui gruppi umani.
Secondo te il P2P rimarrà limitato a nicchie di produzione o si espanderà?
La storia del capitalismo è fatta di grandi ondate di crescita basate su tecnologie rivoluzionarie. Ciclicamente, il capitalismo si trova di fronte a una crisi, e da queste crisi il mondo esce cambiato. Credo che ora stiamo andando verso qualcosa di simile: il mondo fondato sul sistema di produzione industriale sta crollando e non sappiamo cosa troveremo al suo posto. Probabilmente però le nuove tecnologie su cui si baserà il sistema futuro saranno il web e le tecnologie dell’informazione; esse stanno già crescendo alle periferie del sistema industriale. Il modello futuro dovrà includere l’apertura alla partecipazione e alla produzione peer to peer, proprio come il capitalismo di oggi ha dovuto inglobare le idee socialiste con il welfare e il suffragio universale, per esempio.
Quali sono le misure che proponi?
Dobbiamo favorire l’apertura delle infrastrutture, ovviamente. Ma abbiamo bisogno anche di tre tipi di istituzioni: la prima sono i beni comuni, che vanno protetti finanziando l’innovazione sociale, per esempio ricercatori che producono nuovi farmaci e invece di brevettarli li mettono a disposizione di tutti. Poi dobbiamo favorire le pratiche economiche sostenibili: sostegno alle piccole imprese che fanno innovazione sociale, per esempio. Infine è necessario sostenere quell’1% di persone che sono più attive nella produzione P2P. Infatti il 90% circa degli utenti di progetti P2P ne fa un uso passivo, il 10% contribuisce saltuariamente, e l’1% invece è composto da persone che lavorano al progetto a fondo. Questo 1% deve poter sopravvivere senza fare altri lavori. Le città e le regioni che sapranno dar vita a queste tre istituzioni saranno più interessanti per le comunità P2P ma anche per il business: saranno economicamente più forti.
Nessuno, però, ha ancora trovato il modo per difendere i diritti di chi produce contenuti gratuiti per il web
Per questo dobbiamo accelerare questo processo e favorire le domande sociali che spingono per il peer to peer, l’open access, i beni comuni. Già oggi in fondo assistiamo alla nascita di un welfare dal basso basato su beni comuni e P2P: ci sono comunità che vengono sostenute da aziende per portare avanti progetti P2P, per esempio quella del software open source. Ciò però non garantisce i singoli individui: c’è bisogno di un reddito di base per tutti, che permetta di affrontare i periodi di transizione da un lavoro all’altro o quelli in cui si passa dal mercato alla produzione P2P. Dopo la seconda guerra mondiale l’idea di un welfare universale sembrava un’utopia. Eppure l’abbiamo ottenuto. Anche oggi dobbiamo contemplare riforme radicali.