La scienza dei Simpson

La prima domanda che ci si fa, quando si vede La scienza dei Simpson. Guida non autorizzata all’Universo in una ciambella (Sironi, 192 pag., 16 euro), è: ancora Simpson? Anche la scienza? Ci avete già dato tutto, dalle tazze per far colazione alle figurine, fino al libro sulla filosofia dei Simpson. Ci voleva anche la scienza?

Poi, quando si comincia a leggerlo, si resta impressionati dalla quantità e dalla qualità della scienza che è entrata nel cartone animato più bello del mondo. Tanta, sin dalla prima puntata. Un sacco di scienziati famosi, a partire da Stephen Jay Gould e Stephen Hawking, sono diventati gialli e hanno partecipato a qualche episodio.

Poi ci si addentra nella lettura e si scoprono le mille citazioni nascoste, le strizzate d’occhio, le chicche e i "lo sapevate che…"A quel punto (siamo alla terza pagina) si avvia eMule e si cominciano a scaricare gli episodi segnalati, per vedere se davvero i Simpson hanno dimostrato il teorema di Fermat e se davvero Homer ha detto, in pieno delirio sociocostruzionista, che "i fatti sono insignificanti. Puoi usare i fatti per dimostrare qualunque cosa che sia vagamente vera. Che ci fai coi fatti?" Ma arriva il momento in cui ci si rende conto che c’è un limite a tutto, anche alla propria anima nerd.

Allora si riprende in mano il libro perché insomma, uno vuole capire cosa ne pensa Marco Malaspina, della scienza dei Simpson. La risposta è semplice: la scienza con cui si confrontano, si scontrano, si azzuffano i Simpson è esattamente quella con cui abbiamo a che fare noi, ogni giorno: strana, magica, incomprensibile, rompiscatole. Anche se non lavoriamo in una centrale nucleare e non siamo uno degli sceneggiatori cervelloni che riempiono un cartone animato di citazioni incomprensibili sulla teoria dell’evoluzione o sulla psicologia comparata.

Code Monkeys

Una sit-com, un cartone animato, ma soprattutto un tributo ai videogame degli anni ottanta. Code Monkeys, il nuovissimo show di Adam de la Peña, è semplicemente divertentissimo. Racconta le storie della GameAvision (vi ricordate la Activision?), una piccola ditta di videogiochi nei ruggenti ottanta, gli anni dell’esplosione dell’informatica e del personal computer.

I Code Monkeys nel gergo geek sono le "scimmie del codice", i programmatori alla catena di montaggio della rivoluzione informatica. E gli strambi lavoratori pixelosi della GameAvision, disegnati a 8-bit come gli arcade di una volta, hanno ben chiaro da che parte stare: ovunque, anche agli ordini di un miliardario texano che di videogiochi non capisce nulla e per testarli deve assumere un assurdo bambino coreano.

L’importante è non finire alla Bellecovision, la megaditta concorrente che ingabbia la creatività in una catena di montaggio alimentata a frustate.
In questo senso Code Monkeys incarna lo sconvolgimento dei sistemi di produzione e delle dinamiche lavorative che hanno seguito, ma anche dato vita, all’era del computer. Una bibbia per i brainworker contemporanei, e poi dove la trovate una sit-com con corridoi a ostacoli, pipistrelli e trappole comprese? In Italia non c’è ma potete vedervi qualche spezzone su YouTube. In eMule, ovviamente, si trovano tutti gli episodi.

Callisto

«Cara Condoleeza Rice, spero che lei mi può perdonare per aver mentito, lo so che lei mi capisce. Suo affezionatissimo Odell Deefus». Potete immaginare quanto debba essere disperato, tonto e irrimediabilmente sfigato il povero Odell, se ripone tutte le speranze in una sgrammaticatissima lettera indirizzata alla sua amata Condi, di cui conserva una foto nel portafoglio. Del resto davvero solo lei potrebbe levarlo dalla gigantesca montagna di Guai Molto Seri in cui si è cacciato, con l’FBI alle calcagna e un’accusa di terrorismo che gli pende sulle spalle.

Il problema è che la sua avventura nei bassifondi della coscienza americana, quella ossessionata dalla guerra al terrore e pronta a sospettare di tutto e di tutti, nasce proprio da un’apparizione televisiva di Condoleeza Rice. Se non si fosse messo in testa di partire volontario per l’Iraq perché «magari se rimediavo qualche medaglia al valore da esibire diventavo qualcuno», e quindi non avesse cercato di raggiungere l’ufficio reclutamento di Callisto, un Posto Qualunque sperso nel cuore del Kansas, Stati Uniti d’America, senza un dollaro in tasca e senza saper mettere un congiuntivo al posto giusto, il povero Odell non avrebbe vissuto una storia così incredibile.

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Hacker scienziati e pionieri

Chi sono gli hacker? Sono innanzitutto persone che condividono un’attitudine e un’etica e che si erano messe all’opera ben prima dell’inizio della rivoluzione informatica e della nascita della stessa parola «hacker». Gli eroi dell’era dell’informazione sono coloro che hanno creduto negli ideali della libera condivisione delle idee, della ricerca e della curiosità.

Le loro vicende si sono svolte quasi sempre al di fuori della scienza ufficiale, nei garage, nei dormitori per studenti e nell’industria, e le loro idee, una volta applicate, hanno dovuto superare la prova del confronto con il magma della società e dell’economia. Soltanto lì esse trovano la loro strada, diventando a tutti gli effetti prodotti culturali del loro tempo. Sono queste idee a guidare Carlo Gubitosa, giornalista, saggista e segretario dell’associazione Peacelink in Hacker scienziati e pionieri. Storia sociale del ciberspazio e della comunicazione elettronica (Stampa Alternativa, 240 pagine, 13 euro).

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Luci e ombre di Google

Su Liberazione di oggi una mia intervista a Ippolita, «Comunità di scriventi» che ha da poco pubblicato il suo secondo libro: Luci e ombre di Google. Sotto l’intervista e qui il libro scaricabile gratuitamente.

«Don’t be evil», non essere cattivo. È il motto di Google, paradiso dell’accesso alla conoscenza, dell’innovazione e della gratuità. Ma Google ha anche un’altra faccia, più nascosta ma non meno importante, il suo lato oscuro: il principale strumento con cui navighiamo sul web e cerchiamo informazioni è un grande fratello tecnologico?

Se lo chiede Ippolita, nome collettivo di un gruppo di ricercatori e attivisti che si dedicano ad analizzare con uno sguardo critico la rete e le tecnologie dell’informazione. Con un’attenzione particolare agli aspetti tecnici – alcuni di loro sono informatici – ma senza mai separarli dai loro rapporti con le pratiche sociali che animano internet. Anche per questo il loro ultimo libro, Luci e ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei metadati (Feltrinelli, 176 pagine, 9,50 euro) è scaricabile gratuitamente dal sito di Ippolita ed è rilasciato sotto licenza Creative Commons: chiunque può usarlo, modificarlo, pubblicarlo se non ne fa uso commerciale.

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La ricchezza della Rete

E' uscito il libro di Yochai Benkler, La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà (Egea, 612 pagine, 34,50 euro). Potete scaricarlo in italiano da qui.

Un libro importante (e imponente), che cerca di tracciare un ritratto della società dell'informazione in rete. La tesi principale, di cui l'autore rintraccia conferme nel giornalismo, nel software, nella biomedicina, nelle relazioni sociali, è che la commons-based peer production – la produzione orizzontale basata sui beni comuni informazionali – sia uno strumento di liberazione dell'individuo e di progresso economico e sociale.

Anche nella scienza: non soltanto nel campo dell'editoria scientifica, nel quale l'Open Access si sta affermando ogni giorno di più. Ma anche, direttamente, nei processi di produzione del sapere tecnoscientifico. A Yochai Benkler ho fatto un paio di domande proprio sulla scienza, alla presentazione del libro il 10 maggio a Milano.

Professor Benkler, crede che la produzione orizzontale renda possibile qualcosa come una scienza 2.0? Continue reading “La ricchezza della Rete”

Come si comunica la scienza?

C'è Craig Venter anche nel libro di Yurij Castelfranchi e Nico Pitrelli, Come si comunica la scienza? (Laterza, 148 pagine, 10,00 euro). I due ricercatori, che si occupano del rapporto tra scienza e società, lo ritengono un esempio significativo di scienziato «post-accademico», tipico della fase nella quale i processi scientifici non sono più confinati all’interno dei laboratori e delle università ma devono aprirsi al dialogo con la società.

Alla scienza non basta più essere valida o corretta: deve essere anche socialmente robusta, cioè deve incontrare le esigenze, i problemi e le priorità dei cittadini. E per farlo deve parlare con loro e saperli ascoltare. Una questione di democrazia, dato che è ormai impensabile affidare soltanto all’esperto scelte importanti come quelle che riguardano, per esempio, la produzione di energia o la ricerca sulle cellule staminali. Per la scienza è anche un problema di sopravvivenza: per adattarsi, centri di ricerca e istituzioni scientifiche si stanno dotando sempre più spesso di uffici stampa, open days e campagne marketing.

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L’ultima copia del New York Times

Si torna sul tema «morte dei giornali» con un libretto davvero ben scritto e documentato di Vittorio Sabadin, L'ultima copia del New York Times (Donzelli, 168 pagine, 15 euro).

Si legge tutta d'un fiato questa storia del declino dei giornali di carta e delle previsioni per il loro futuro, assediato dall'invasione di campo di internet e da quella del citizen journalism: cittadini che si fanno le notizie da sé.

Negli ultimi quindici anni i giornali hanno seguito strade piuttosto simili in tutto il mondo: riduzione del formato (e degli organici) per risparmiare carta e diventare più leggibili, esplosione di gadget e allegati per portare a casa qualche soldo extra, tentativi più o meno timidi di ampliare le forze dei propri siti internet.

Certo che in alcuni casi, come il Guardian inglese o alcuni quotidiani locali della Gannett statunitense, c'è stato più coraggio: articoli pubblicati in rete prima che sulla carta, raccolta di notizie dai lettori, uso degli strumenti collaborativi del web.

Probabile che molti li seguiranno, dato che secondo molti analisti nell'ora del giudizio universale (cioè quando tra pochi anni i quotidiani cominceranno a chiudere) si salverà solo chi già oggi ha sviluppato un rapporto virtuoso con internet, considerandolo uno strumento informativo da sfuttare e non un nemico da cui difendersi. Inutile dire che i piccoli-medi quotidiani italiani non nemmeno cominciato a pensare come reagire.

L'altro fortino per resistere all'assedio è quello scelto dai giornali iperlocali o da quelli fortemente radicati in una nicchia politica o culturale. I loro lettori potrebbero essere felici di pagarli di più pur di tenerli in vita. Per tutti gli altri il futuro sarà fatto di web, pubblicità e free press. Per quelli che avranno un futuro.

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L’invasione molecolare

Cosa ci fanno strane colture batteriche e apparecchiature biotecnologiche sospette nelle mani di un professore di arte della New York University e di un genetista di Pittsburgh, entrambi di note simpatie libertarie? È quello che si sono chiesti gli agenti dell’Fbi quando, il 30 maggio 2004, hanno perquisito le case di Steve Kurtz e di Robert Ferrell del Critical Art Ensemble.

Negli Usa della Guerra al terrore, del Patriot Act e delle buste all’antrace, l’arresto e l’accusa di bioterrorismo erano scontati. Anche se i due hanno dimostrato che l’innocuo Bacillus atrophaeus e gli altri microorganismi trovati dall’Fbi erano solo gli ingredienti delle loro performance artistiche, la loro odissea giudiziaria non è ancora finita.

Il Critical Art Ensemble infatti è un collettivo di artisti e scienziati che dal 1987 è «dedito all’esplorazione delle intersezioni tra arte, tecnologia, politica radicale e teoria critica». Il Critical Art Ensemble con le sue performance cerca di mostrare a tutti le intersezioni tra scienza, società, immaginari collettivi. Per esempio, permettendo al pubblico di produrre un batterio transgenico e deciderne il rilascio nell’ambiente. Oppure testando in un piccolo laboratorio portatile la presenza di organismi geneticamente modificati nel cibo portato da chiunque.

Il loro libro L’invasione molecolare (Eleuthera, 120 pagine, 10 euro), scritto collettivamente e liberamente scaricabile, fa parte del tentativo di aprire la «scatola nera» della scienza per mostrarne il funzionamento. Perché «il processo scientifico non appare mai pubblicamente, appaiono solo i suoi miracolosi prodotti. Vogliamo portare i routinari processi della scienza al pubblico. Farglieli vedere e toccare».

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La vita segreta del McLavoratore

Stavolta l’infiltrato è un professore di management statunitense, Jerry Newman, che per qualche mese ha provato i peggiori McJob d’America, praticamente un guastatore in incognito in missione nei fast food, e poi ha scritto un libro: My secret life on the McJob. Lezioni da dietro la cassa, garantiti effetti supersize su qualunque tipo di management, appena pubblicato negli Stati Uniti.

D’accordo, niente di nuovo se non fosse che stavolta l’infiltrato era dall’altra parte del bancone, a friggere patatine e hamburger con un occhio particolare per le condizioni dei lavoratori e il loro rapporto con gli amati/odiati manager: secondo Newman, che ha lavorato in sette ristoranti, da McDonalds a Burger King, il clima e le condizioni di lavoro dipendono radicalmente dal capo di turno.

Incredibile, ma i manager possono arrivare a premiare i dipendenti assegnando loro PIÙ ORE di lavoro invece che un aumento. Il morale dei dipendenti? Direttamente determinato da quello che succede nell’ufficio del boss.

Proprio in questi giorni è uscito anche uno studio dell’Università della Florida sui motivi per cui la gente si licenzia e cambia lavoro, naturalmente negli States: spesso e volentieri la colpa è dei capi e dei capetti, che non si fanno scrupoli nel ricorrere a mezzi sporchi, incentivi illegali, mobbing, richieste di lavoro extra. Il 39 per cento dei settecento lavoratori intervistati afferma che il loro capo ha mentito e non ha mantenuto la sua parola. Il 37 per cento non è stato pagato regolarmente. Il 24 per cento accusa il capo di aver invaso la sua privacy.

Wayne Hochwarter, l’altro professore di management che ha condotto lo studio, sottolinea insomma che «i lavoratori non lasciano il loro lavoro o la loro azienda, ma lasciano il loro capo». I suoi consigli sono fondamentali: lavoratori, fate finta di niente. Minimizzate i danni che vi causa il vostro superiore e datevi da fare. «La cosa più importante è essere visibili sul lavoro. Nascondersi può essere negativo per la vostra carriera, specialmente quando impedisce ai vostri colleghi di riferire il vostro talento e il vostro contributo» alla causa. Il vostro capo non sarebbe per niente soddisfatto.

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