Il contagio e i suoi significati simbolici, che emergono nei resoconti dei giornali, nel modo in cui la cultura popolare, i film e i media raccontano lo scoppio di un’epidemia o la diffusione di una malattia infettiva. Sono questi i temi di cui si occupa Priscilla Wald, del dipartimento di Women Studies della Duke University, nel suo ultimo libro, uscito da poco negli Usa e intitolato Contagious: cultures, carriers, and the outbreak narrative (Contagio: culture, portatori e la narrativa sulle epidemie, Duke University Press). L’ho incontrata a Seattle e le ho chiesto di spiegare i risultati della sua ricerca in profondità nella cultura popolare americana e nei resoconti che riguardano le malattie infettive, i contagi, le epidemie.
Di cosa parliamo quando parliamo di contagio?
Il contagio è più che un fatto epidemiologico. La circolazione dei microbi materializza la trasmissione delle idee e gli spostamenti delle persone, rendendo visibili le interazioni sociali delle nostre comunità e raccontando la storia nascosta di chi è stato dove e quando, e cosa ha fatto. E le narrazioni sulle epidemie nei media e nella cultura popolare seguono una trama tipica, che inizia con l’identificazione di un’infezione emergente, parla delle reti globali sulle quali si sposta e termina con il suo contenimento. Queste storie però hanno delle conseguenze. Stigmatizzano gruppi di persone, comportamenti e stili di vita. Pensiamo al modo in cui i migranti che arrivavano negli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo, dall’Italia, dalla Russia, erano stigmatizzati in base alle malattie. Certo, ogni individuo che entra in una nuova comunità porta nuovi germi al suo interno, questo è vero. Ma l’idea che i migranti fossero una minaccia nazionale, cosa che veniva detta in quel periodo, non era vera. Inoltre, l’idea che chiudere le frontiere fermerà la malattia non è sempre valida: i microbi e i virus non rispettano i confini, e i portatori della malattia possono essere turisti, viaggiatori, non solo migranti.
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